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ARMATI DI CHITARRE PER LA LIBERTÀ

Mohamed Dadah è un giovane artista di strada nella Repubblica Democratica Popolare di Algeria. Mohamed suona una chitarra per pochi spiccioli: musica allegra, per donare gioia e sorrisi ai passanti. Si fa chiamare Moh Vita Boy, a tradire la sua voglia di gioco e di evasione, che ama trasmettere attraverso le percussioni veloci che fanno vibrare la sua chitarra lucida.

Chitarra e cappellino sono tutto ciò con cui gira fino al suo arresto: in un pomeriggio come tanti la polizia lo strappa al suo metro di strada – il suo palcoscenico – con l’accusa di “elemosina professionale”, per rinchiuderlo in carcere.

Moh Vita Boy viene portato via sotto gli occhi del suo pubblico, i passanti di Audin, nel centro storico della città. La notizia si diffonde come un virus. Migliaia di giornalisti e di giovani riempiono le strade per puntare il dito contro il sistema politico locale, portano con sé le loro chitarre, cantano e si impadroniscono dei vicoli della città al grido “la strada ci appartiene”. La Rivoluzione è partita, niente sangue, nè grida, nè disperazione ma solo una strada come teatro, tanta voglia di libertà e il desiderio di vedere Mohammed di nuovo lì al suo posto, come sempre, con la sua chitarra e il sorriso. Uno schiaffo a chi pensa che per cambiare la società si debba necessariamente ricorrere alla violenza.

Tutto inizia a girare ad ogni livello, si crea una massa critica che sfida i metodi repressivi del governo. “La polizia sarebbe più ispirata se si dedicasse ai baroni del commercio nero”, dichiara un medico in pensione, che partecipa alla rivoluzione non violenta via web.

La “rivoluzione delle chitarre” raggiunge l’obiettivo: il giovane non solo è rilasciato, ma il sindaco della città gli conferisce un premio come miglior artista di strada. Tutto è tornato al suo posto, anche Mohammed, di nuovo lì al centro di Algeri, il suo teatro.

“Ieri qualche cosa è cambiato in Algeria, le mura della paura che proteggono la fortezza della cultura ufficiale sono state abbattute da questi giovani: la libertà di espressione ha trionfato” – commenta Ammar Kessab, membro di un collettivo indipendente che si occupa di politica e cultura.

I giovani algerini non sono gli unici ad avere denunciato la repressione culturale a suon di musica: anche in Egitto, i rapper locali hanno fatto la loro parte nel corso della Primavera araba, pubblicando canzoni per esprimere rabbia contro il regime.

Così nel nord del Mali, stanno tornando solo oggi ad aprire i festival musicali, dopo che nel 2012 gli estremisti islamisti presero il potere, imponendo la sharia e mettendo al bando alcune espressioni artistiche ritenute eversive. “E’ da quel momento che giovani musicisti rischiano di perdere la vita solo per suonare musica tradizionale”, dichiara Toumani Daiabaté sulle colonne del Guardian. Solo ora i palchi ed i festival stanno rifiorendo, dopo anni di oscurantismo di cui siamo stati vittime noi giovani artisti. “Ora che la minaccia del terrorismo è vicina, siamo noi musicisti a potere parlare alla gente di riconciliazione e di pace”, continua Daiabaté.

Anche in Tunisia, i giovani musicisti che hanno fatto da colonna sonora alla rivoluzione contro il dittatore Ben Ali hanno lottato contro repressione e censura: sono stati arrestati, esclusi dalle trasmissioni, talvolta esiliati o costretti ad unirsi allo Stato Islamico.

Questi ragazzi hanno disobbedito con la forza di chi è nel giusto, come i loro coetanei della Primavera araba, alla ricerca di rispetto e diritti. Sono dei passi nella direzione di una libertà ancora troppo spesso calpestata dai vertici del potere locale; ma le chitarre questa volta hanno potuto più di mille programmi politici, contro quell’Islam estremo che vede la musica come haram, via proibita verso il peccato. Avanti così.

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