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25 APRILE, LA MEMORIA CHE DIVIDE

Il 25 aprile del 1945 l’Italia fu liberata. Dal nazifascismo, dal terrore del rastrellamento massiccio e dall’occupazione dei tedeschi. I due anni di lotta armata, che aveva in breve assunto una vera e propria connotazione di guerra civile, erano arrivati al loro punto di svolta con l’insurrezione decisiva di Milano che, rispondendo all’appello del futuro presidente della Repubblica e membro del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia, Sandro Pertini, si liberò da sé: “Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”. E, mentre le forze alleate avanzavano da sud, la primavera milanese scaturì un breve effetto domino: il primo maggio successivo, le principali città del settentrione si erano divincolate dal giogo dei nazifascisti, spianando la strada alla nuova democratizzazione della Penisola che, di lì a poco, sarebbe sfociata nel referendum del 2 giugno 1946.

I gruppi partigiani

“Arrendersi o perire”: la scelta concessa agli invasori dopo un biennio di oscurità totale. E, come in ogni guerra civile, distinguere il limite fra giusto e sbagliato, fra luci e ombre non è mai semplice. E di ombre ce n’erano, anche fra i cosiddetti “buoni”. Nei gruppi partigiani c’era di tutto e c’era chiunque: ne parlò anche Italo Calvino nel suo romanzo d’esordio, “Il sentiero dei nidi di ragno”, descrivendo la banda alla quale il giovane protagonista, Pin, si aggrega. Tutto, meno che un gruppo uniforme. Uniti nell’ideale ma ognuno profondamente diverso. Nessun eroe, fra loro: tutti antifascisti per un proprio motivo. E, in qualche modo, i combattenti delle montagne la loro guerra l’hanno combattuta per un ideale che, su veicoli differenti, cercava sostanzialmente di affermare la stessa cosa.

Luci e ombre

Per questo, in un conflitto civile, discernere fra il buono e il cattivo è argomento da affidare ai posteri. Farlo mentre lo scontro è in atto, non funzionerebbe. L’ideale radicato, la convinzione assoluta delle proprie ragioni vale la lotta e vale la vita e, di certo, la mera riflessione filosofica non convincerebbe nessuno. Nello stesso romanzo calviniano vi è un solo momento in cui questa avviene e, non per nulla, è affidata a uno studente universitario, Kim. Il resto è azione, più o meno partecipata. “Ancora oggi – scriveva Giampaolo Pansa nel suo libro ‘La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti’ – qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti è stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c’erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della libertà. Ma si è trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano”. Forse per questo, a distanza ormai di 72 anni dalla Liberazione, risulta altrettanto difficile concordare su un valore commemorativo da condividere in toto. Persino l’ex presidente Giorgio Napolitano, all’indomani della sua prima elezione al Quirinale, riconobbe i lati oscuri dell’operato partigiano (di parte rossa) durante gli ultimi due anni della Seconda guerra mondiale. In sostanza, anche nella parte pro-popolo, il fantasma esisteva e l’ideale politico, forse, prevaleva sul desiderio di restituire l’Italia agli italiani.

Sangue e sospetto

Qualcuno, la Liberazione, non l’ha vista come sua o, più precisamente, non la battaglia che avrebbe combattuto. Altri, probabilmente, non la riconoscono come una battaglia vinta, se non altro per gli sviluppi successivi. Di fatto, il Pci in Italia, almeno al governo, non c’è stato mai. Il sangue, però, la terra italica l’aveva bagnata e, come in ogni guerra civile, il crimine è equiparato su entrambi i fronti in lotta. Per settanta lunghissimi anni si è in parte glissato sulle effettive responsabilità storiche del martirio italiano, perpetrato dai fascisti, certo, ma anche dagli avversi di parte rossa. Basterebbe ricordare quella dimenticata strage dei preti considerati troppo vicini al fascismo e troppo lontani dal comunismo. L’arma letale del sospetto, serpeggiata durante il buio del ventennio fascista, aveva contagiato anche alcune fazioni del fronte opposto che, alcune esecuzioni, le esercitarono allo stesso modo. Anche in piena lotta, le differenze di metodo e di azione si erano ben palesate e, in questa frammentazione, gran parte del ruolo lo aveva giocato il momento storico presente e, soprattutto, quello appena trascorso, in particolare il mito ancora ben vivo della rivoluzione bolscevica. Circostanza che, già allora, non contribuì a identificare pienamente il movimento di liberazione come un’unica entità.

Il valore della Liberazione

Resta il fatto, però, che la cosiddetta “guerra di classe” è stata trattata da alcuni storici senza che, effettivamente, abbia intaccato il valore assodato della lotta per la liberazione del nostro Paese. E, senza dubbio, nessuno si sognerebbe mai di sminuire l’eroicità di chi, nel valore patriottico della primavera partigiana, ci credette davvero, a costo della vita. E’ innegabile che, sulla scia della Resistenza, si sarebbe edificato il futuro assetto socio-politico della nazione, con la creazione di una Costituzione basata sui valori che la lotta al fascismo aveva fatto emergere con forza. E, di conseguenza, l’ombra di un nuovo regime sul territorio italiano sarebbe rimasta tale, simbolo di un’ambizione fallita. Alla fine, come era giusto che fosse, a prevalere su tutto il resto è stato il valore assoluto della Liberazione. Che non vi sia una vera e propria memoria condivisa in proposito non è in fondo una questione che ha interessato la gran parte dell’opinione pubblica. I retaggi oscuri del passato, come spesso accade, non sono che il retroscena di un qualcosa di più grande. Nello specifico, che l’Italia, il 25 aprile del 1945, fu liberata dal giogo del nazifascismo. D’altronde, come scritto anche da Primo Levi, “la memoria umana è uno strumento meraviglioso, ma fallace”.

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