La storia del dibattito politico italiano, inteso come confronto fra le forze in campo e gli elettori, ha sempre messo in secondo piano la politica estera, considerandola una questione interna al governo di turno in carica. Una tradizione, quella del contesto internazionale come semplice contorno al menù principale, destinata a essere messa in archivio dai mutamenti di questi tempi, dove il cambio di scena dettato dai nuovi leader impone scelte diverse e non convenzionali. Del resto se tra i principali scopi della politica estera di un Paese c’è quello di proteggerne gli assetti interni dalle pressioni internazionali, il governo Meloni, al suo terzo anno di vita, ha svolto questo compito centrando la piena sufficienza. E per fare ciò, anche a costo di tensioni e fibrillazioni fra le fila dei partiti che sostengono l’esecutivo, Palazzo Chigi ha adottato una semplice strategia: mantenere separata la sfera internazionale da quella interna, conducendo la politica estera su due piani paralleli e non comunicanti.
Da una parte le cose concrete, ovvero quelle che devono essere fatte, dall’altra la simbologia, dove gli annunci servono a mitigare la pressione delle domande. In questo modo è possibile minimizzare i rischi. Parte fondamentale di questo approccio l’ancoraggio ai due pilastri storici della politica estera italiana: atlantismo ed europeismo. E qui si innestano i nuovi scenari, le nuove sfide da affrontare, legate alle richieste del presidente americano, Trump, che chiede all’Europa di essere autonoma in tema di difesa, e alle prospettive messe sul tavolo dai soci della Ue in tema di economia. Giova ricordare come il 14 febbraio scorso la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha annunciato che intende introdurre la clausola di salvaguardia per gli investimenti nel settore della difesa. È una decisione molto importante che, quando diventerà effettiva, consentirà agli Stati dell’Unione Europea di aumentare anche in maniera considerevole le proprie spese militari per fare fronte alle nuove crisi internazionali, senza che questo influisca direttamente sul rispetto dei parametri fiscali ed economici previsti dal Patto di stabilità e crescita, a cui tutti i 27 paesi dell’Unione devono attenersi.
La presidente del Consiglio. Giorgia Meloni, e il ministro della Difesa, Guido Crosetto, hanno accolto con entusiasmo l’annuncio, rivendicando di aver chiesto da tempo questa riforma e di ritenerla necessaria per rafforzare il comparto militare europeo e favorire la nascita di un sistema di difesa comune. L’Italia però è uno dei paesi occidentali che spendono meno nella difesa, e non è detto che questa novità le permetterà davvero di aumentare gli investimenti militari. Anzi: da un certo punto di vista l’annuncio di von der Leyen mette il governo di Meloni di fronte a un problema ancora più complesso. Il Patto di stabilità – la cui nuova versione è in vigore da poco meno di un anno – serve ad assicurare che gli Stati dell’Unione siano economicamente solidi. Per farlo devono attenersi soprattutto a due regole: il deficit, cioè l’eccesso di spesa annuo rispetto alle entrate, non deve superare il 3 per cento del prodotto interno lordo (o PIL, il dato che indica la grandezza dell’economia di un paese); il debito pubblico invece, cioè l’accumulo dei disavanzi annuali, non deve sauperare il 60 per cento del PIL. I paesi che non le rispettano devono concordare con la Commissione dei piani pluriennali di riforme per tornare nei limiti. Quello che ha annunciato von der Leyen in sostanza, se tutto sarà confermato, è che l’aumento di spesa per la difesa non finirà in questo calcolo e concorrerà a formare una specie di bilancio a parte. Questa modifica alle regole europee dovrebbe appunto permettere ai paesi dell’Unione di aumentare considerevolmente la propria spesa militare: un obiettivo annunciato dalla stessa von der Leyen che si è reso necessario per le pressioni di Donald Trump, che dopo il suo ritorno alla presidenza degli Stati Uniti lo ha chiesto in modo molto perentorio ai paesi europei della Nato, l’alleanza militare creata nel Secondo dopoguerra di cui fanno parte gli Stati Uniti e la stragrande maggioranza dei paesi europei.
In queste condizioni, quale ruolo può avere l’Italia e soprattutto quale strategia seguirà? È possibile continuare a mantenere il gioco della politica estera su due piani non comunicanti? Si è molto parlato nel centro-destra del possibile ruolo di mediazione che l’Italia potrebbe giocare tra Europa e Stati Uniti in questo momento. Fra i possibili scenari quello che dovrebbe preoccupare di più il governo Meloni è quello di un’UE indebolita dalle pressioni trumpiane volte a dividerne i membri, per negoziare bilateralmente da posizioni di forza. Sebbene le simpatie del governo e dell’elettorato di centrodestra possano pendere verso gli USA, l’Italia avrebbe enormi difficoltà ad adattarsi alle richieste dell’amministrazione Trump in termini di spese militari e commerciali, oltre che esporsi alle forti pressioni da Bruxelles, soprattutto su politiche nei cui ambiti Washington può offrire poco sostegno. Il 2025 si preannuncia per il governo Meloni un anno che continuerà a mettere a dura prova la capacità sinora mostrata dalla premier di conciliare le dinamiche internazionali e quelle interne in maniera sufficientemente efficace da consentirle, ad un tempo, di perseguire una politica estera europeista e filoamericana, senza per questo minacciare la stabilità di una coalizione di governo divisa sulle questioni internazionali e con essa la capacità di realizzare la sua agenda di politica interna.