L’11 febbraio del 1929, nella Sala dei Pontefici, del Palazzo Lateranense a Roma, furono firmati dal cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato di Pio XI e da Benito Mussolini, capo del governo, i Patti detti, appunto, del Laterano. Trovava finalmente soluzione la “Questione Romana”, ossia il dissidio e la contrapposizione che avevano caratterizzato i rapporti tra Chiesa e Stato in Italia, a seguito della presa di Roma, il 20 settembre del 1870, da parte dell’esercito italiano, con il successivo trasferimento della capitale del Regno da Firenze. Ne conseguirono la fine dello Stato della Chiesa, l’autoreclusione in Vaticano di Pio IX, per protesta contro lo Stato italiano “usurpatore”, il cui sovrano Vittorio Emanuele III era stato scomunicato.
I Patti del Laterano contengono tre distinti e interconnessi protocolli: Il Trattato, il Concordato e la Convenzione finanziaria che prevedeva l’erogazione da parte dello Stato Italiano alla Santa Sede di un miliardo di lire per risarcimento dei “danni ingenti subìti dalla Sede Apostolica per la perdita del patrimonio di San Pietro, costituito dagli antichi Stati Pontifici, e dei beni degli enti ecclesiastici”.
Nella premessa del Trattato si fa riferimento alla comune convenienza a “eliminare ogni ragione di dissidio” e a “addivenire ad una sistemazione definitiva dei reciproci rapporti”. Conseguentemente, “l’assoluta indipendenza per l’adempimento della Sua alta missione nel mondo, consente alla Santa Sede di riconoscere composta in modo definitivo ed irrevocabile la Questione romana, sorta nel 1870 con l’annessione di Roma al Regno d’Italia sotto la dinastia di Casa Savoia”.
Il primo articolo del Trattato recita: “L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1° dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato”. E il 2°: “L’Italia riconosce la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione ed alle esigenze della sua missione nel mondo”.
Con il Trattato si configura come Stato indipendente, nonostante l’esiguità del suo territorio, la Città del Vaticano, racchiusa dentro il perimetro delle mura leoniane, con l’aggiunta, anche con lo status di extraterritorialità, di edifici religiosi e civili a Roma e a Castel Gandolfo. Questo, tuttavia, durante l’occupazione tedesca di Roma non impedì alla cosiddetta Banda Koch, al soldo delle SS, di fare irruzione nell’Abbazia di San Paolo Fuori le Mura per prelevare degli antifascisti che vi avevano trovato rifugio.
Il Concordato, ritenuto “necessario complemento” del Trattato, regola “le condizioni della Religione e della Chiesa in Italia”, assicurando “alla Chiesa Cattolica il libero esercizio del potere spirituale, il libero e pubblico esercizio del culto, nonché della sua giurisdizione in materia ecclesiastica”. All’articolo 2, inoltre, riconosce “il carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e méta di pellegrinaggi”.
Di particolare rilievo sono gli articoli 11 sul riconoscimento statale dei giorni festivi stabiliti dalla Chiesa, 13-14-15 sulla formalizzazione dei cappellani e dell’ordinario militare all’interno delle Forze armate. Pur senza una precisa configurazione giuridica, negli anni drammatici della Grande Guerra, molti sacerdoti, come lo stesso don Primo Mazzolari, di sicure convinzioni pacifiste, aveva voluto, condividere, sul fronte, le sofferenze e i rischi dei propri giovani parrocchiani.
Ancora più importanti gli articoli 34 e 36. Il primo recita: “Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili”. Il secondo, invece, a partire dalla premessa condivisa che “l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica è fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”, prevede che gli insegnanti, a partire dalle scuole elementari, siano essi religiosi o “sussidiariamente” laici, debbano avere un certificato d’idoneità rilasciato dal vescovo. Fonte di aspre, successive, polemiche e di drammi personali sarà l’articolo cinque che, al comma tre, prescrive: “In ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico”. Una sofferta, dignitosa, testimonianza al riguardo è l’autobiografia, col titolo di “Pellegrino di Roma” di Ernesto Buonaiuti, studioso di fama europea della storia del cristianesimo, che, per le sue idee moderniste, era stato ridotto allo stato laicale e scomunicato. Buonaiuti è stato tra i pochissimi professori universitari che non giurarono fedeltà al regime. Eppure, anche nell’Italia liberata, in ottemperanza all’art. cinque del Concordato, fu reintegrato nello stipendio, ma non nell’insegnamento.
Quali le reazioni “ab intra” sulla Conciliazione? È nota l’entusiastica valutazione di Pio XI che, due giorni dopo la firma dei Patti del Laterano, in un’udienza concessa ai professori e agli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore , affermò: “Siamo riusciti a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio”.
Una valutazione più articolata e critica è stata proposta da un suo stretto collaboratore. Monsignor. Domenico Tardini, per oltre due decenni al vertice della Segreteria di Stato insieme con monsignor Giovanni Battista Montini, poi, segretario di Stato di Giovanni XXIII, in una pagina del suo diario inedito che io ho pubblicato nella sua biografia, pubblicata anni orsono da Studium, riflettendo, l’11 febbraio del 1934 sul quinto anniversario dei Patti del Laterano, ha scritto: “Liquidare la questione romana fu senza dubbio un gran bene per l’Italia, che si tolse di colpo di fronte ai cattolici dell’estero la dolorosa nomea di spogliatrice e carnefice del Papa e per la Santa Sede, che, con l’andare degli anni, sarebbe stata ridotta a protestare senza che nessuno la prendesse sul serio, perdendo così, oltre il regno anche il prestigio.
Fu un gran bene la modificazione delle leggi ecclesiastiche italiane: un insieme di sciocchezze, di contraddizioni, di sofismi, di settarietà, di massimalismo anticlericale. Ma fu davvero vantaggioso il Concordato, cioè un vero e proprio patto bilaterale, con circa quaranta articoli, con disposizioni così varie e così complesse, così molteplici da dare ad ogni piè sospinto la possibilità di dissidi e di lotte? L’esperienza avrebbe dovuto insegnare qualche cosa: tutti i concordati sono destinati ad essere trasgrediti e cader”.
Eppure, cinquant’anni dopo, dopo lunghe e convergenti trattative, nelle quali ha avuto un ruolo preminente monsignor. Achille Silvestrini, che di Tardini è stato collaboratore e discepolo, la Santa Sede e la Repubblica italiana sono riuscite ad apportare modificazioni profonde, indubbiamente migliorative, al Concordato del 1929, per la cui applicazione sono coinvolte anche la Conferenza episcopale italiana e le Conferenze episcopali regionali.
Le modificazioni, come recita la premessa dell’accordo sono concordate, “tenuto conto del processo di trasformazione politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi promossi nella Chiesa dal Concilio Vaticano II. Avendo presenti, da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla sua Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, nonché la nuova codificazione del diritto canonico”.