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Legge elettorale: un dibattito che non passa mai di moda

Nella politica italiana c’è un dibattito che non passa mai di moda. Al punto da riemergere, come un fiume carsico, nel bel mezzo di tutte le legislature. Perché la legge elettorale, meglio sarebbe dire il sistema con il quale vengono eletti i parlamentari indicati di partiti nelle proprie liste, non è più un modo per esercitare il diritto dovere del voto, come prevede la Costituzione, ma il mezzo attraverso il quale provare a stoppare la strada all’avversario. Ovviamente la materia scalda solo i cuori degli addetti ai lavori, senatori e deputati e con loro il governo in carica, ma gela sempre più l’animo e la testa degli italiani. Del resto un sistema politico, inteso nel suo complesso, che riesce a portare al voto meno del 64% degli aventi diritto come nel settembre 2022 (9 punti in meno rispetto al 2018) deve porsi altre priorità, che tornare a interrogarsi sulla legge elettorale. Anche perché i segnali successivi venuti dal voto regionale sono anche peggiori, con un’affluenza precipitata a percentuali minoritarie, dato confermato nel giugno scorso anche al voto europeo: per la prima volta in una competizione nazionale è andato a votare meno di un cittadino su due.

L’Italia, così, da sempre ai primi posti per partecipazione al voto ha invertito la rotta ed è precipitata nel 2022 ben al di sotto della media europea. Basterebbe questo a imporre una seria riflessione alla politica, invece, di restare con lo sguardo da un’altra parte. Invece l’argomento, seppur sotto traccia, è tornato ad essere presente nell’agenda dei partiti. Costretto a occuparsene il centrodestra, che ha dovuto accantonare la sua proposta sul premierato – al momento – proprio per la necessità di trovare la “quadra” sulla legge elettorale, tutta da ridisegnare ancor prima di parlare di elezione diretta, perché il sistema possa stare in piedi. Ma costretti a occuparsene sono anche i partiti di opposizione che non trovano un’intesa sui programmi e ora si dividono sul cosiddetto “lodo Franceschini”, che ha sollevato il coperchio sulla pentola fumante. La proposta dell’ex ministro della Cultura si muove dentro lo schema dell’attuale legge elettorale, il “Rosatellum”, dal nome del proponente Ettore Rosato, che ha un’impostazione basata su una percentuale prevalente di seggi (oltre il 60%) attribuiti tramite il proporzionale, attraverso liste bloccate dei partiti. L’idea di Franceschini – spiegata a Repubblica – fa leva su questo, ma con un preciso obiettivo tattico e politico: togliere dal tavolo la prospettiva di dar vita a un nuovo Ulivo. Per battere il centrodestra, è il ragionamento di Franceschini, meglio andare al voto ognuno per conto suo (magari con un nuovo partito al centro) utilizzando per la parte restante dei seggi, attribuiti con il maggioritario uninominale, una sorta di desistenza. L’adesione di Giuseppe Conte all’idea (oltre che dei centristi Renzi e Calenda) è stata vista con fastidio dagli altri, come una sorta di scappatoia ricercata per sfuggire ancora al confronto. Ma ora, dopo le perplessità di Elly Schlein e la netta contrarietà di Avs è Romano Prodi a metterci sopra una pietra tombale. Chi più di lui, d’altronde, è titolato a parlare di Ulivo e desistenza? “Certo, l’Ulivo non si potrebbe rifare”, ammette Prodi. Ma mettere d’accordo partiti così eterogenei non solo si può, si deve: “Sono i problemi del riformismo”, dice. Quanto all’idea di Franceschini, “se scriviamo oggi che dobbiamo andare al voto senza avere un’idea, anzi che dobbiamo proprio evitare di avere un’idea in comune, si possono anche vincere le elezioni, ma si uccide il Paese”, avverte. Per cui si tratta, per Prodi, di “cercare quattro grandi problemi su cui trovare una visione comune”. Come se fosse facile.

Nel centrodestra, invece, il tema viene declinato in modo diverso, esistendo un’alleanza solida. Il problema, semmai, è quello di trovare una piattaforma valida che apra la strada alla riforma costituzionale. Ma nel ragionare su una nuova legge elettorale l’alleanza del governo Meloni ha ben chiaro, ancor più dopo le parole di Franceschini, che cosa non deve essere consentito in questo sistema di voto: la possibilità di tenersi le mani libere per allearsi solo dopo il voto. “Non saremo certo noi a togliere le castagne dal fuoco alle opposizioni”, ragionano dentro Forza Italia. Posto questo limite, però, il partito azzurro, al pari degli altri, conviene su questa voglia di proporzionale che ritorna. L’idea su cui si sta ragionando, anzi, nel centrodestra, è proprio quella di un sistema proporzionale in cui al posto della parte maggioritaria del Rosatellum si inserisca un premio di maggioranza del 15% alla coalizione vincente (che però dovrebbe superare la soglia del 40% in entrambi i rami del Parlamento). Quindi: proporzionale sì, ma con vincolo di coalizione. Quanto al voto di preferenza e alle liste bloccate c’è una proposta La Russa che prevede i soli capolista “bloccati” e due voti di preferenza sugli altri in lista. Una proposta però che non piace agli alleati, perché, allo stato attuale, solo Pd e FdI avrebbero possibilità reali di eleggere candidati in lista, oltre i capolista, con gli altri, nei partiti alleati, condannati di fatto al ruolo di comparse.

Si fa strada quindi un’altra idea, come punto di mediazione fra i poli, quella di rispolverare, riveduto e corretto, il “Mattarellum”, una legge che ha funzionato, che potrebbe piacere al centrosinistra, anche solo ricordando chi la promosse, e potrebbe piacere anche al centrodestra, che ha vinto due volte su tre (nel 1994 e nel 2001) con questo sistema, che ha mostrato di funzionare: Il 75% di seggi uninominali, assegnati con il maggioritario, e 25 con il proporzionale, per fare in modo che i partiti possano contarsi è un’idea di cui si parla, sia fra i giuristi sia fra i responsabili dei partiti. La materia, insomma, è tornata ad essere di stretta attualità all’interno delle segreterie dei partiti, non certo nei dibattiti al bar o a casa. E questo sta a dimostrare quanto sia ampia la distanza fra Paese reale e Paese percepito.

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