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Don Mimmo Battaglia inaugura la Casa di Bartimeo: “Un’opera segno del Giubileo”

Il Cardinale Domenico Battaglia, don Mimmo, racconta a Interris.it le sfide dell'essere pastore di un territorio complesso come Napoli e le speranze per questo anno giubilare

Il Cardinale Domenico Battaglia, Arcivescovo metropolita di Napoli, ha ricevuto la porpora nel Concistoro del 7 dicembre 2024, esercita il suo magistero in una città tesoro del Sud: “Terra di fatica, di speranza e di desiderio di riscatto”, che paragona ad un campo di grano: “luogo bellissimo dove i colori della vita si mescolano con le ferite della terra”. Don Mimmo guida l’Arcidiocesi di Napoli rivolgendo particolare attenzione ai più deboli e agli emarginati. Una delle priorità del suo impegno pastorale è l’ascolto delle grida di aiuto, perché non si può solo osservare, ma occorre “sporcarsi le mani di umanità” per rispondere con concretezza e amore e per infondere speranza e desiderio di riscatto.

La Casa di Bartimeo

E proprio l’anno giubilare ha visto, il 20 gennaio 2025, l’inaugurazione della Casa Bartimeo, il cui nome evoca il mendicante cieco Bartimeo – che incontriamo in un passo del Vangelo di Marco (10, 49) – al quale Gesù rivolge l’esortazione: “Confide, surge, vocat te! – Coraggio, alzati, ti chiama!”. Questa opera, segno del Giubileo della Speranza, è un luogo di accoglienza, di sostegno, di ascolto e di accompagnamento dei più fragili, a testimonianza che occorre camminare insieme confidando nel dono della fraternità, della condivisione e della fede. Don Mimmo, conducendoci nella complessità del territorio partenopeo, ci rammenta che solo attraverso il cuore e il Vangelo, che ci insegna: “nessuno è mai perduto”, possiamo lavorare affinché anche il carcere sia un luogo di rinascita e tendere una mano verso chi non crede più, verso chi si sente scarto, verso chi ha bisogno di riscoprire di essere amato, aprendo così concretamente la strada al Giubileo. Del resto, il valore dell’essere umano si misura con l’amore che ciascuno di noi porta dentro e la vita di ogni persona è preziosa, come ci ricorda don Mimmo in questa intervista in cui testimonia, tra l’altro, la bellezza di essere comunità.

L’intervista a don Mimmo Battaglia

Don Mimmo, cosa vuol dire essere pastore in un territorio così complesso come Napoli?

“Vede, Napoli è come un campo di grano, un luogo bellissimo dove i colori della vita si mescolano con le ferite della terra. Per essere servo della gente, prete, vescovo a immagine del Pastore bello, bisogna saper stare nel mezzo: con un orecchio attento al grido della città e l’altro pronto ad intercettare il canto della speranza. Perché Napoli è questo: è grido che si fa preghiera, è speranza che non muore. Qui non si può solo osservare: qui si deve abbracciare, occorre sporcarsi le mani di umanità, toccare le viscere di una città che piange ma non si arrende, che cade ma si rialza sempre. E questo a volte può stancare ma è quella stanchezza benedetta, santa, di cui parla spesso papa Francesco e che condivido con tanti presbiteri e laici della mia Chiesa. Perché un pastore da solo non va da nessuna parte. Occorre che sia con il gregge. Sempre”.

Quali sono i problemi sociali di Napoli che la Chiesa si trova a dover affrontare?

“I problemi di Napoli non sono solo cifre e statistiche: sono volti, storie, nomi. Ci sono i ragazzi dei vicoli e delle periferie, schiacciati da un destino che non hanno scelto, le madri che aspettano figli che non tornano, gli anziani che sentono troppo silenzio intorno a loro. Ci sono le ferite della illegalità, della povertà, di una solitudine che divora. La Chiesa si trova di fronte non solo a problemi, ma a grida di aiuto che chiedono ascolto, e ha il dovere di rispondere con concretezza e amore. Ci stiamo provando”.

Quali strumenti ritiene che la Chiesa abbia a disposizione per sensibilizzare i giovani a non cadere nelle maglie della camorra?

“La Chiesa non ha armi né potere, ma ha il cuore e il Vangelo. Che si traducono nella scelta di educare al bene e al bello. E di farlo insieme a tutti coloro che hanno a cuore i figli di questa terra. Per questo da qualche anno ho lanciato l’appello ad un Patto Educativo, un processo in cui tutti coloro che si occupano di ragazzi e di bambini imparino a camminare insieme a far sistema dando vita a una città educativa. Un processo ancora in corso e che non potrà dirsi mai concluso perché ci sarà sempre bisogno di rammentarsi che occorre camminare insieme. E di testimoniare la bellezza di essere comunità: i giovani, infatti, non hanno bisogno di prediche e lezioni, ma di testimoni: uomini e donne che vivono il coraggio della giustizia, che camminano con loro, fianco a fianco. Attraverso oratori, scuole, sport, cultura, la Chiesa può aprire strade nuove, far brillare sogni diversi, costruire ponti dove ci sono solo muri. E soprattutto, può dire a ogni ragazzo: “Tu vali. Sei figlio di Dio, non della camorra”.

Nel mosaico dei quartieri che compongono la città partenopea, qual è, attualmente, l’emergenza più improcrastinabile, a cui dover far fronte?

“L’emergenza più urgente, direi, è quella che deriva da tutte le ferite della città, è l’emergenza della dignità. Occorre restituire dignità. Dignità alle famiglie che faticano a mettere il pane sulla tavola, ai giovani senza lavoro, ai bambini che crescono senza spazi sicuri. Ogni quartiere ha il suo volto, il suo grido, ma al centro c’è sempre questo: la fame di rispetto, di possibilità, di riscatto. È lì che la Chiesa deve mettere le mani, dove il cuore della città sanguina di più”.

Quali percorsi la Chiesa ha intrapreso e quali pensa di avviare nell’Anno giubilare, per risvegliare una speranza concreta, per infondere fiducia, soprattutto nei quartieri più abbandonati?

“Nell’Anno Giubilare, il sogno è quello di far vibrare le porte della misericordia nei luoghi più dimenticati. La Chiesa è già presente, con le sue parrocchie, le sue comunità, i suoi volontari, ma il Giubileo deve essere un’occasione per andare ancora oltre. Camminare nelle periferie, accendere piccole luci nei vicoli bui, creare spazi di incontro, di ascolto, di fraternità. Il Giubileo deve essere una strada aperta: una mano tesa verso chi non crede più, verso chi si sente scarto, verso chi ha bisogno di riscoprire di essere amato. Proprio per questo la prima opera segno che aprirà quest’anno giubilare è la nascita di Casa Bartimeo, un luogo di accoglienza residenziale diurna, di sostegno sanitario e psicologico, di ascolto e accompagnamento dei più fragili”.

Quali episodi l’hanno colpita di più, nella sua esperienza pastorale?

“Ogni giorno incontro croci che mi tolgono il sonno, ma anche resurrezioni che mi ridanno forza. Penso ai volti dei detenuti che, dietro le sbarre, ritrovano una luce negli occhi perché qualcuno li ha ascoltati. Penso alle madri che hanno perso figli per la violenza e trovano il coraggio di perdonare. Penso ai bambini che riempiono gli oratori con sorrisi che sfidano la miseria. Ogni incontro è un piccolo miracolo che mi ricorda perché siamo qui: per stare con chi soffre, per trasformare i sogni in segni”.

Come ritiene implementabile la possibilità di far respirare ai detenuti un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine?

“La strada è lunga, ma non impossibile. Bisogna entrare nelle carceri non come giudici, ma come fratelli. Creare percorsi di formazione, di lavoro, di ascolto. Dare ai detenuti non solo una seconda possibilità, ma una prima possibilità vera, perché molti non l’hanno mai avuta. È il Vangelo che ci insegna: nessuno è mai perduto. Ma dobbiamo farlo concretamente, lavorando con istituzioni, famiglie, comunità, perché il carcere non sia un luogo di condanna, ma di rinascita”.

Come conciliare il rispetto della dignità di ogni persona, dei suoi diritti e il sovraffollamento degli istituti penitenziari che rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario?

“Il sovraffollamento è una ferita aperta, e chi vive il carcere lo sa bene. Serve un cambiamento culturale e politico: meno carcere, più prevenzione, più pene alternative che restituiscano dignità a chi sbaglia. Bisogna lavorare insieme, Chiesa e istituzioni, perché il carcere non diventi un girone infernale, ma un luogo umano. E rispettare la dignità vuol dire anche ascoltare il grido di chi ci lavora: il personale penitenziario ha bisogno di strumenti, di condizioni dignitose, di sostegno. Non si può ignorare né il dolore dei detenuti né quello di chi si occupa di loro”.

Un messaggio di speranza, per ricordare che è sempre possibile ricominciare?

“Non importa quanto buia sia la notte: l’alba arriva sempre. Napoli è una città di resurrezione, lo vediamo ogni giorno. A chi si sente perso, vorrei dire: non lasciarti schiacciare dal peso della vita. Ogni errore, ogni ferita, ogni caduta può diventare una nuova partenza. Dio non si stanca mai di aspettarti, di amarti, di credere in te. Ricominciare è possibile, sempre. Non da soli, ma insieme. La Chiesa è qui per dirti: non è mai troppo tardi, perché il tuo valore non si misura con i tuoi fallimenti, ma con l’amore che porti dentro. La tua vita è preziosa, e il mondo ha bisogno di te”.

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