La situazione dell’Artico come parametro e campanello d’allarme del cambiamento climatico. Sos climate change: l’Artico non immagazzina più ossido di carbonio (Co). Dopo millenni trascorsi come pozzo di Co, oltre un terzo della regione artico-boreale è ora una fonte di monossido di carbonio. Si tratta di un gas inodore e incolore che si forma dalla combustione incompleta degli idrocarburi presenti in carburanti e combustibili. È un inquinante primario con un tempo di permanenza in atmosfera relativamente lungo (circa quattro mesi) e con una bassa reattività chimica. Questo allarmante risultato emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, condotto dagli scienziati del Woodwell Climate Research Center. Il team, guidato da Anna Virkkala, ha valutato i dati raccolti da 300 siti dal 1990 al 2020. Considerando le dinamiche annuali e i cambiamenti recenti nel clima e nei regimi di incendi settentrionali. La regione artica, spiegano gli esperti, ha trascorso millenni a fungere da sito di stoccaggio di carbonio per il pianeta. Tuttavia, i punti caldi regionali e gli incendi boschivi sempre più frequenti nelle latitudini settentrionali hanno quasi annullato questa capacità. Secondo quanto emerge dall’indagine, il 34 per cento della zona artica-boreale, ovvero la tundra senza alberi, le foreste e le zone umide delle latitudini settentrionali del pianeta, rappresentano ora una fonte di carbonio. Questo bilancio dipende dall’assorbimento di anidride carbonica, dalla fotosintesi delle piante e dal gas rilasciato in atmosfera attraverso la respirazione microbica e vegetale. Se si aggiungono le emissioni derivanti dagli incendi, la percentuale sale al 40 per cento.
Allarme-Artico
“Volevamo sviluppare il quadro più attuale e completo del carbonio nel nord – afferma Virkkala – sapevamo che dovevamo tenere conto della crescente impronta di carbonio degli incendi in questa regione. Abbiamo scoperto che molti ecosistemi settentrionali agiscono ancora come pozzi di anidride carbonica. Ma le regioni di origine e gli incendi stanno ora annullando gran parte di quell’assorbimento netto e invertendo tendenze di lunga data”. Le misurazioni sono state effettuate da torri e camere di monitoraggio del flusso di carbonio, che tracciano lo scambio di gas tra la terra e l’atmosfera. Questi dati sono stati archiviati e analizzati in una biblioteca completa e in crescita denominata “ABC Flux”, diretta da Virkkala. Negli ultimi 30 anni, riportano gli studiosi, si assiste a un incremento dell’assorbimento di carbonio durante l’estate. Mentre durante i mesi invernali la tundra sembra rilasciare più emissioni. “Abbiamo notato un notevole livello di variabilità – aggiunge Sue Natali, altra autrice dell’approfondimento – ciò non sorprende, perché l’Artico è un’area molto vasta, con ecosistemi e condizioni climatiche diversificate. Questo lavoro ci permette di tracciare e mappare i processi del carbonio a una risoluzione spaziale molto definita”. Sottolinea Virkkala: “Il ciclo di carbonio nella regione del permafrost sta iniziando a cambiare. Il nostro studio potrebbe fungere da segnale di avvertimento di cambiamenti più grandi, mostrando dove concentrare gli sforzi di monitoraggio e intervento“.
Ecosistemi a rischio
Gli ecosistemi dei laghi artici si stanno sensibilmente trasformando a causa di eventi meteorologici estremi o del protrarsi di fenomeni come il riscaldamento e l’intensificazione del ciclo dell’acqua. Eventi ben noti, questi ultimo, ma di cui ancora non si conosce il reale impatto sugli ecosistemi artici. Pertanto ricercatori dell’Università del Maine, US, hanno voluto indagarne gli effetti in un lavoro pubblicato oggi su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences). Hanno quindi esaminato le possibili conseguenze del periodo di caldo e precipitazioni record dovuti a flussi mutevoli dei fiumi atmosferici, una banda d’umidità allungata concentrata nell’atmosfera che trasporta vapore d’acqua e acqua in forma di nuvole, avvenute nel corso del 2022 nella Groenlandia occidentale. Alcuni laghi nella Groenlandia occidentale avevano, prima di questi fenomeni acqua limpida con bassa produttività primaria. Ma il calore elevato e le precipitazioni hanno favorito l’aumento degli afflussi di materiale terrestre nei laghi, tra cui materiale organico disciolto e metalli come il ferro. Tale evento, nel giro di un anno, ha modificato il colore delle acque dei laghi che è passato da limpido a marrone torbido, con una riduzione sulla penetrazione della luce del 50%. Il cambiamento ha, inoltre, alterato le comunità biologiche dei laghi. Diminuendo la diversità di procarioti, organismi viventi unicellulari, caratterizzati dall’assenza di nucleo cellulare, e aumentando i gruppi di alghe in grado di metabolizzare il carbonio organico. L’afflusso di carbonio terrestre ha causato un incremento delle emissioni di anidride carbonica dai laghi del 350%. Trasformando questi specchi d’acqua da pozzi naturali di carbonio estivi a fonti di carbonio. Lo studio, secondo gli autori, descrive la rapida trasformazione di un ecosistema artico indotto da eventi meteorologici estremi e gli effetti imprevedibili correlati a un clima che si riscalda.
Geopolitica del clima
Intanto l’America First di Donald Trump punta anche sull’acquisizione della Groenlandia. L’isola, con appena 56.000 abitanti e un’estensione di sette volte l’Italia, è da anni nel mirino degli americani. Già dai tempi del presidente Truman che, dopo la Seconda guerra mondiale, mise sul piatto l’equivalente degli attuali 1,6 miliardi di euro per acquistarla. Ma l’operazione non andò in porto. La strategia di Trump mira a diversi obiettivi: mettere le mani sul potenziale di terre rare, gas e petrolio e il controllo di una rotta commerciale che rischia di finire, in futuro, nelle mani di Mosca e Pechino. Tutti obiettivi legati al previsto scioglimento dei ghiacci, spinto dal climate change. Ma ci sono anche mire militari legate ad una presenza strategica in caso di attacco russo. La Groenlandia è stata finora una terra di ghiacci senza la possibilità tecnologica di mettere mano alle sue imponenti materie prime che un rapporto dell’Us Geological Survey (l’agenzia statale americana che studia il territorio) stima in 300-400 miliardi di dollari di valore. Nel sottosuolo dell’isola artica sono stati scoperti giacimenti stimati intorno al 13% delle risorse mondiali di petrolio e al 30% di quelle di gas. Oltre a riserve auree, ma anche rubini, diamanti, zinco e uranio.
Geopolitica dell’Artico
Con lo scioglimento dei ghiacci e l’apertura di nuove rotte, secondo i dati dell’Arctic Council, il traffico commerciale è già aumentato consistentemente nell’ultimo decennio e su quella zona del mondo, a metà strada tra Usa ed Europa, hanno già messo gli occhi anche la Russia e la Cina, che hanno già siglato un accordo per sviluppare insieme le rotte artiche. L’isola più grande del mondo, che attualmente è un territorio autonomo della Danimarca dopo esserne stata una colonia, è poi un posto chiave per la sicurezza degli Usa che la vedono come un cruciale avamposto di difesa da Putin. Forze americane sono presenti dalla fine della Seconda guerra mondiale con l’importante base di Pituffik Space, ritenuta strategica in caso di attacco nucleare di Mosca. Il riscaldamento globale però sta cambiando le carte in tavola, causando lo scioglimento di quasi 300 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno. Un ritmo che farebbe prevedere non solo prospettive di estrazione ma che aprirebbe anche una rotta marittima commerciale. Navigare lungo l’Artico abbrevia il percorso di circa il 40% rispetto al passaggio da Suez.