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In monastero un non credente alla ricerca

L’intervista di Interris.it allo scrittore Alex Corlazzoli, maestro e giornalista, sul suo ultimo libro “Diario da un monastero”

Un’altra dimensione spaziotemporale su un pianeta, piccolo e non molto distante dal nostro mondo eppure molto diverso, dove le coordinate esistenziali sono date dal silenzio e dall’essenzialità. Questo ha vissuto Alex Corlazzoli, maestro, giornalista e scrittore, durante la sua permanenza nella comunità monastica di Cellole, fondata a San Gimignano, in Toscana, da monaci provenienti dal Monastero di Bose. Un’esperienza fatta di incontri, scambi di opinioni, riflessioni personali e passeggiate nella natura. Si è tradotta poi in un libro, “Diario da un monastero”, nato da parole scritte per sé in ore taciturne e solitarie. “Le parole danno valore alla giornata, sono un balsamo al cuore, un piccolo dono prezioso, un atto di cura”, dice l’autore a Interris.it, “nel monastero riacquisiscono valore anche quelle che ci sembrano comuni, a cui ‘fuori’ non diamo più importanza”. In una vita dedita al prossimo, piena di attività di volontariato e umanitarie in giro per l’Italia e per il mondo, Corlazzoli si è messo in aspettativa dal suo lavoro tra i banchi, pur continuando a collaborare con il sito del Fatto quotidiano, per condividere, da non credente, la quotidianità, le considerazioni e le fatiche dei monaci, imparando ad ascoltare quello che il silenzio ha da dire e a vivere del e nell’essenziale, per condurre una ricerca che in fondo riguarda ogni persona.

L’intervista

Com’è nato questo libro?

“Il primo giorno in monastero ho pianto perché il tempo e lo spazio della mia vita cambiavano totalmente, dalla sera restavo solo con me stesso nella cella fino al primo mattino. Così ho iniziato a scrivere i miei pensieri per me. Solo dopo ho considerato che quegli appunti potevano diventare un libro utile a far conoscere il monachesimo”.

Cosa spinge un laico a mettere piede in un monastero?

“Mi definisco una persona che crede di essere atea, un ateismo di fatica e di sacrificio. Ti rendi conto che Dio, che per te non c’è, è invece significativo per molte persone. Così ti nasce dentro una nostalgia di Dio. Questa mi ha spinto ad andare più volte nei monasteri, cominciando a 18 anni, in cerca di bellezza, di silenzio, di incontri, di una parola che sia la Parola. E’ una ricerca comune ai credenti e agli atei più ‘credenti possibile’”.

Poiché non è stata la prima esperienza in un luogo del genere, cos’è cambiato rispetto alle altre?

“Se la prima volta non fu facile, in seguito ho cominciato ad apprezzare la vita in monastero. Stavolta ho deciso di restare non pochi giorni ma due mesi, che avrebbero anche potuto protrarsi, per stare nel silenzio e nella solitudine. Non essermi posto limiti precisi mi ha dato l’impressione che si trattasse di scelta di vita e questo un po’ mi turbava e scombussolava”.

Com’è stata la convivenza con i monaci?

“Sono stati i due mesi più belli della mia vita. La sveglia alle 5 e 30 del mattino per la prima preghiera della giornata alle sei, le altre a mezzogiorno e alle 18 e 30, i pranzi e le cene, la condivisione dei loro momenti di lavoro e delle fatiche. Il priore Emiliano, la mia guida spirituale con cui trascorrevo un’ora e mezza ogni giorno. Dario che mi portava nell’orto. Valerio che conosce la Parola e la natura. Adalberto che è scrittore ed esperto di ortodossia. Inoltre, il monastero di Cesole è meta di pellegrini, così ho cercato di fraternizzare con gli ospiti. Durante i giorni di Natale c’è stata una coppia veneta con una bambina piccola”.

Una delle parole che ricorre di più nel libro è “silenzio”. Che impatto ha avuto sulla sua permanenza?

“Nel monastero è un compagno di vita sia quando si è soli che con altre persone, spesso si cena in silenzio. A volta diventa un amico, altre un avversario. E’ faticoso da ascoltare perché non è vero che nessuno parla, anzi, c’è tanta riflessione, tanta parola. Ho cercato di conciliarlo con le letture e con le passeggiate nel bosco in silenzio. Oltre a questo, trascorrevo almeno sei ore al giorno senza cellulare e non è stato così traumatico. Tutto è rinviabile”.

Si trovano diverse riflessioni sulle celle dei monaci, il confronto con quelle delle persone detenute o quella che chiama “la sfida della cella”…

“Faccio il volontario in carcere e vedo spesso le celle delle prigioni, un altro luogo – come quelle dei monaci – dove lo spazio si restringe. I detenuti non vivono una condizione edificante, così cercano vie di fuga scrivendo o leggendo, anche testi sacri come la Bibbia o il Corano. Differentemente, le celle dei monaci non sono luoghi tristi, bensì semplici, perché conducono una vita essenziale nella sobrietà. L’essenzialità è un segno di bellezza. Quella scrivania, quella lampada che di notte ti fa compagnia, sono accoglienti senza bisogno di orpelli. Anche noi abbiamo bisogno di essenzialità nella nostra vita, abbiamo troppe cose”.

C’è stata una distanza iniziale che poi ha colmato?

“Due, la preghiera e il sesso. Normalmente nella mia vita non prego, traduco nel volontariato gli insegnamenti del cristianesimo, e in monastero durante i momenti di preghiera leggevo accompagnato dal salmodiare dei monaci. Questa distanza si è colmata quando, di nuovo fuori, ho sentito nostalgia della preghiera e il bisogno di un momento di raccoglimento. La preghiera è un silenzio eloquente. Sull’altra materia, sono entrato nel monastero con la mia vita normale scegliendo di condividere per due mesi il celibato e ho sublimato i momenti di desiderio con una camminata nei vigneti o la lettura di un libro impegnativo. Mi sono accorto che una disciplina che credevo tanto distante da me in realtà mi era vicina”.

Cos’altro rimane quando si torna alla vita “fuori”?

“Cerco di fraternizzare di più negli ambienti professionali e amicali in cui vivo, di dedicare più tempo alla cura dell’altro e di me stesso. Purtroppo, a causa dei ritmi quotidiani, non riesco più a ritagliarmi un momento per una lettura spirituale accompagnata da una musica di sottofondo, come durante le preghiere in monastero. Nel mondo di oggi non si è più abituati al silenzio, alla solitudine, e al tempo stesso la politica si è fatta meno umana, dalla più alta forma di carità è diventata individualismo. Si è persa quella dimensione di servizio, di ricerca di uno stile di vita che può cambiare il mondo. Personalmente l’ho adottata per lungo tempo e mi arrabbio se c’è qualcuno che pur potendo fare qualcosa per l’altro non si attiva”.

Come invertire la rotta di quella che papa Francesco chiama “cultura dello scarto”?

“Tento di avere cura degli altri con le mie scelte. Il passo evangelico ‘ero straniero e mi avete accolto’ resta per me un messaggio essenziale. Il cristianesimo era una bussola per molte persone e da quando è in crisi, da quando abbiamo smesso di andare a messa la domenica, abbiamo perso valore e il senso di comunità. Dobbiamo seguire il messaggio cristiano, che è universale, e fare politica senza un partito, come insegna padre Alex Zanotelli”.

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