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L’atlante di Donald Trump

Le parole sono pietre, soprattutto nelle relazioni internazionali: inutile interrogarsi, allora se Donald Trump abbia davvero intensione o meno di spedire i militari a Panama come un Theodore Roosevelt che partì per Cuba, oppure in Groenlandia, come i vichinghi ai tempi di Snorri Sturluson o di Erik il Rosso. Lo ha detto, il dado è tratto, il problema è posto. Magari non ci sarà il ricorso all’uso della forza, come si spera, ma la pulce è nell’orecchio e sarà difficile immaginare che idee come queste siano da archiviare non appena il Presidente prossimo futuro parlerà d’altro, magari con toni ugualmente roboanti. Panama City, Copenaghen, siete avvertite: prima o poi qualcuno busserà alla vostra porta.

Certe affermazioni infatti non vengono dal nulla. Sono il distillato di un atteggiamento, di un modo di vedere che ha decantato per anni nel non detto, o nel detto tra pochissimi intimi finora considerati discepoli inesperti di Friedrich Ratzel, il padre della geopolitica. Probabile che Trump lo sia, ma il fatto stesso che il pacioso Federico X Re di Danimarca abbia mutato il suo stemma, per ribadire chi è sovrano in Groenlandia, la dice lunga: il blasone non si cambia senza una promessa di dura lotta, peraltro ben rappresentata da due nerboruti elementi maschili armati, ciascuno, di poderosa clava.

È, quella di Trump, la più grande minaccia all’integrità territoriale danese dai tempi in cui Bismark conquistò il ducato dello Schleswig-Holstein e non è un caso che Federico abbia fatto riferimento, nel suo intervento pubblico più recente, proprio alla minoranza danese che ancora adesso nello Schleswig vive e dalla quale proviene la sua stessa famiglia.

La Casa di Windsor non ha seguito le orme di quella regnante tra i danesi, forse perché nel suo stemma i dominions di una volta non sono raffigurati. Ugualmente difficile immaginare che Londra, finora illusa dal miraggio di una special partnership post Brexit che ne facesse il ponte tra Europa e Washington, accetterebbe senza muovere un sopracciglio il distacco formale dalla Corona di Ottawa e dintorni; per non dire delle possibili reazioni della minoranza francofona canadese, che in passato già tentò la via della secessione.

Non è cosa di domani, insomma, questa nuova politica delle cannoniere da parte degli Stati Uniti e, anche se dovesse arrivare quel momento, non è detto che la giornata si concluda con successo. Le affermazioni di Trump infatti vanno ad incidere sullo stato più profondo degli equilibri internazionali, l’esistenza stessa di entità e stati segnati sulla carta da ben prima che egli stesso nascesse, spesso secoli addietro. Andare a rimescolarli implica provocare reazioni che vanno ben al di là del semplice contesto economico o dell’attualità politica.

In questo caso, poi, sembrano fatte apposta per mettere la politica statunitense in contrasto con i lenti ma irrefrenabili processi della storia. Se Washington vuole per sé Canada e Groenlandia, l’Atlantico del Nord (quello della Nato, per intenderci) ha registrato un mai colto ma innegabile processo di revisione degli equilibri politici. La parte europea – paradosso dei paradossi – si è rafforzata con l’ingresso nel quartier generale di Bruxelles delle delegazioni di Svezia e Finlandia e, mentre la Gran Bretagna si trova a dover gestire il fallimento della Brexit senza doverlo ammettere, Islanda e Norvegia stanno rimuginando l’idea di entrare addirittura nell’Ue.

Visto in questa prospettiva, l’atlante ridisegnato da Trump pare più una battaglia di retroguardia con non una tonitruante asserzione di sovranità illimitata. Persino l’idea di riprendersi il Canale di Panama lascia pensare ad una manifestazione di sentimenti nostalgici destinati a smarrirsi nel tempo. Ma, ripetiamo, attenzione: quel che sembra fuori del tempo stamane, domani qualcuno potrebbe imporlo nuovamente nell’agenda delle cancellerie. La politica è fatta anche di sogni apparentemente astrusi. Ecco perché, a sentir parlare di ribattezzare il Golfo del Messico per dedicarlo all’America, a vedere queste casate europee risvegliarsi dal torpore, a sentir evocare dopo tanti anni la Dottrina Monroe, non può venirci in mente un sogno astruso di tanti anni fa, che nel Messico tentò di realizzarsi.

Alludiamo all’idea di Napoleone III di creare uno stato vassallo a sud del Rio Bravo. Essendo egli un Bonaparte, lo stato a lui vassallo non poteva essere che un Impero affidato ad una casa imperiale. Fu così che a fondare l’Impero del Messico fu inviato Massimiliano d’Asburgo. Era il 1864. Poveretto, Massimiliano fece una brutta fine. E cominciò l’irrefrenabile decino di tutti i Napoleonidi.

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