Il “Brand activism” (attivismo del marchio) consiste in un’evoluzione della politica dei grandi marchi aziendali di tutto il mondo che, rispetto al passato, in cui sponsorizzavano e favorivano cause importanti a livello sociale (senza sbilanciarsi eccessivamente), ora assumono una posizione netta e d’azione su argomentazioni di vario tipo, per sensibilizzare istituzioni e cittadini. La locuzione è stata introdotta nel 2019, dal massimo esperto di marketing al mondo, il professor Philip Kotler, statunitense, nel suo volume intitolato appunto “Brand activism, dal purpose all’azione” (in Italia, pubblicato da “Hoepli” nel settembre 2020).
Si tratta di una rivoluzione, attiva, pratica e concreta, della cosiddetta “corporate social responsibility” (responsabilità sociale delle imprese). In pochi anni si è passati da una politica di “brand purpose” (scopo del marchio) a una di brand activism (attivismo del marchio). Tale nobile “ristrutturazione” aziendale rimodula ogni settore: quello degli acquisti, dei fornitori, della pubblicità nonché la professionalità di operai, impiegati e dirigenti.
Alcune aziende hanno, quindi, adottato delle politiche e delle promesse in favore dell’ambiente, dell’uguaglianza sociale, contro lo sfruttamento dell’immigrazione, il razzismo, la povertà, la disoccupazione. L’interesse di un marchio è quello di favorire un’immagine sempre più positiva e attrattiva nei confronti dei clienti, utilizzando le numerose opportunità comunicative a livello mediatico.
Fra queste, le più recenti e le più virali (quelle dei social), sfruttano anche il supporto fornito dagli influencer che tanto seguito nutrono nei confronti di giovani e giovanissimi. L’assunto che queste fasce della popolazione siano più attente agli schieramenti aziendali, deriva proprio dal loro maggior “legame” con social e influencer. Il professor Romano Cappellari, docente di Marketing e Retailing, è l’autore di “Marketing e brand activism”, pubblicato da “Carocci” l’11 ottobre scorso. Parte dell’estratto recita “L’ascesa di Pharrell alla direzione creativa di Louis Vuitton, la relazione tra Barbie e Birkenstock, l’apertura del Botanical Cafe Lego e dei ristoranti Dior, il lancio della birra Patagonia e della collezione Tiffany & Arsham Studio & Pokémon, il successo di Skims e i problemi di Yeezy… Il nuovo protagonismo dei brand e il ruolo inedito che hanno assunto nel rapporto fra consumatori e aziende stanno trasformando il marketing e il mestiere di marketer”.
Il Rapporto Fragilitalia 2024-CONSUMI E GREEN – aprile 2024, pubblicato il successivo 10 giugno, visibile al link https://areastudi.legacoop.coop/wp-content/uploads/2024/06/65-Evoluzione-dei-consumi-e-green.pdf, riporta alcuni dati interessanti riguardanti le ultime tendenze dei consumatori, a cui il marketing e i brand devono porre attenzione. Si legge “I prodotti più o meno acquistati oggi rispetto al passato: +24% Made in Italy, +11% prodotti KM 0, +4% prodotti con pochi grassi/light, -54% prodotti di marca, -32% prodotti etnici, -21% prodotti biodinamici, -20% prodotti biologici, -19% prodotti a base di soia, -16% prodotti equo-solidali/etnici, -16% prodotti vegani. I motivi della riduzione dell’acquisto: prezzo troppo elevato e necessità di risparmiare i motivi fondamentali per la riduzione dell’acquisto di tutti i prodotti considerati”.
I consumatori avvertono sensibilità alle diverse problematiche, sociali e ambientali e sono disposti a premiare, finché hanno disponibilità economica, le aziende schierate (e con evidenze concrete che seguano alle promesse). Come documenta il suddetto studio, infatti, le necessità economiche (generalmente diffuse), non consentono di applicare, in larga scala, le nobili motivazioni, per cui si rende necessaria una selezione, un’adesione ridotta. Il rischio è di sposare prese di posizione non del tutto condivise (dall’azienda e dai consumatori) e subire operazioni contrarie, di boicottaggio.
Tali campagne di sensibilizzazione, teorica e pratica, devono fondarsi su una “coerenza interna”, altrimenti rischiano di piombare nel cosiddetto “greenwashing”: l’ecologismo esteriore, ingannevole poiché pubblicizzato ma non realizzato. La mancata aderenza, condotta per fini commerciali, non sfugge agli acquirenti. Alcune campagne sono avallate pressoché da tutti i consumatori; altre, più divisive e non condivise all’unanimità, raccolgono favore da una parte e critiche da un’altra.
Fra i casi controversi, Wikipedia, al link https://it.wikipedia.org/wiki/Brand_activism, riporta il seguente “Il repentino cambio di rotta nella comunicazione di Gillette che con la campagna del 2019 ‘The best men can be’ ha inteso ridefinire i canoni della virilità e combattere le manifestazioni di una mascolinità tossica, ha incontrato lo scetticismo sia di una parte della audience, che lo ha interpretato come una cinica mossa con finalità di lucro, sia di parte della clientela tradizionale, che lo ha giudicato come una forma di sessismo inverso e ne ha proposto il boicottaggio, sia infine della stampa specializzata, che ha messo in dubbio la convenienza economica dell’operazione”.
I temi legati alla pace, all’ecologia e ai diritti non sono caratteristici della fase storica attuale. Dagli anni ‘60 e ‘70 si è sviluppata una sensibilità generale che, indipendentemente dai risultati ottenuti, ha puntato molto sull’attivismo, sulla critica al capitalismo e sulla lotta alle multinazionali (all’epoca indifferenti, o quasi, a tematiche sociali).
Le differenze fra l’attivismo di fine Novecento e quello del terzo millennio si concentrano su una variabile fondamentale: le caratteristiche e l’impiego dei mezzi di comunicazione. La novità di Internet pone, indubbiamente, dei vantaggi, in termini di tempo, velocità, diffusione del messaggio, davvero unici e impensabili fino a qualche anno fa. Internet “trascina” le aziende nell’arena del web, dove queste devono scoprirsi e assumere posizione.
Non si tratta, in ogni caso, di soli aspetti positivi. La versatilità del mezzo, abbinata alle sue enormi potenzialità, tende, spesso, a divisioni, contrapposizioni, polemiche per una base di consumatori e cittadini uniti ma facili ai troppi distinguo, a infinite dispute di “lana caprina” e a celebrare, eccessivamente, la versione strettamente personale. Una base più unita sarebbe determinante per le scelte a livello politico, sociale, culturale, economico.
La suddivisione in generazioni, al punto di schematizzare profondamente caratteristiche precipue di ognuna, rappresenta un’enorme forzatura, molto velleitaria. Le persone sono talmente complesse e articolate che è arduo e pretestuoso “recintarle”, in blocco, nell’ambito di un arco temporale. Il rischio è di precipitare in banalizzazioni, pregiudizi e inutili stereotipi. Si perpetua, in qualche modo, anche l’insopprimibile esigenza di dover instaurare, necessariamente, un atteggiamento di contrapposizione.
I sondaggi e le ricerche, quindi, effettuati e commissionati dai brand, per comprendere ove poggi maggiormente la sensibilità di ogni fascia d’età, devono essere valutati con attenzione, senza attribuire significati assoluti e indiscutibili. Restringere le attenzioni a singole generazioni rispetto ad altre, pertanto, potrebbe risolversi in un autogol.
Il profitto è l’obiettivo di ogni azienda; il nodo cruciale è quello di perseguirlo in maniera non esclusiva, mostrando anche il lato etico delle operazioni. Una strategia efficace, in questo senso, è quella di sostituirsi e supplire, di fatto, a mancanze istituzionali/governative, ponendosi come attori risolutivi, più snelli burocraticamente e, dunque, di fondamentale supporto.
Nelle dinamiche di mercato, il messaggio che riecheggia nei consigli di amministrazione è quello di forzare l’attivismo, pena maggior ridimensionamento commerciale. Un manager più avveduto e scaltro è in grado di anticipare nuove esigenze e bisogni sociali.
L’alto aspetto valoriale di una politica di brand activism poggia su questioni assimilate, rese proprie e strutturate, poi, in strategie di marketing durevoli. Non si tratta, dunque, di una mera adesione di convenienza, superficiale e di breve durata, quasi un allinearsi a quella che, erroneamente, viene considerata una moda, per giunta proficua. È opportuno premiare le aziende particolarmente disposte a finalità di assistenza e di aiuto alle popolazioni più povere o vittime delle diverse guerre in corso.
Se realizzata davvero e secondo motivazioni profonde, tale svolta dei mercati sarebbe davvero epocale. Il condizionale è d’obbligo, poiché, a esempio, le politiche di sfruttamento dei territori più poveri e dei lavoratori meno tutelati, sono ancora diffuse e crudeli. Come ricorda, nell’Enciclica “Laudato si’”, del 24 maggio 2015, Papa Francesco “È lodevole l’impegno di organismi internazionali e di organizzazioni della società civile che sensibilizzano le popolazioni e cooperano in modo critico, anche utilizzando legittimi sistemi di pressione, affinché ogni governo adempia il proprio e non delegabile dovere di preservare l’ambiente e le risorse naturali del proprio Paese, senza vendersi ad ambigui interessi locali o internazionali. […] Constatiamo che spesso le imprese che operano così sono multinazionali, che fanno qui quello che non è loro permesso nei Paesi sviluppati o del cosiddetto primo mondo. Generalmente, quando cessano le loro attività e si ritirano, lasciano grandi danni umani e ambientali, come la disoccupazione, villaggi senza vita, esaurimento di alcune riserve naturali, deforestazione, impoverimento dell’agricoltura e dell’allevamento locale, crateri, colline devastate, fiumi inquinati e qualche opera sociale che non si può più sostenere”.