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Le quattro immagini che emergono dal viaggio apostolico di Papa Francesco

Si può dire, e con fondatezza, che al cuore di questo viaggio c’è stata l’individuazione del duplice malanno che affligge questo mondo: la disumanizzazione dell’altro e l’emergenza ambientale, che richiedono la scoperta urgente di un vaccino che contenga sia l’umanizzazione che il desiderio di prendersi cura del creato. Da un certo punto di vista è stato questo il cuore del viaggio. Anche in modo evidente, dalla prima tappa, in Indonesia, all’ultima, a Singapore.

Però guardando al contesto, all’incastro, può anche essere detto che questo viaggio sia stato il prosieguo del lungo periplo della Cina che Bergoglio intraprende da molto tempo e che ha avuto negli anni lontani tante tappe, a partire dal viaggio in Corea sorvolando lo spazio aereo cinese e che più recentemente è parso intensificarsi, con i recenti viaggi in Mongolia, Kazakistan e, ovviamente questo. Anche questo centro “direzionale” verso un Paese così importante da tanti punti di vista appare vero, un centro che in certo senso può esserci stato.

Ma non può essere assolutamente trascurato il carattere centrale che il dialogo, interreligioso e interetnico, ha assunto con l’incontro con queste periferie, con le Chiese dello zero virgola come suol dirsi, sebbene quella di Timor Est sia una chiesa da tutto esaurito. L’urgenza, la priorità del dialogo, è stata certamente un’altra esigenza cruciale, un cuore di questo viaggio alla fine del mondo, che essendo la fine potrebbe anche essere l’inizio.

Ma per me il cuore del viaggio di Francesco, di questo suo pellegrinare di terre lontane, è emerso a Timor Est. E non tanto perché è il più cattolico al mondo dopo la Città del Vaticano, o perché ha riversato sul papa la gioia di un numero infinito di bambini, che hanno portato l’immagine della durezza dello scandalo degli abusi, anche laggiù. Una piaga globale, e non solo ecclesiale, ma anche ecclesiale sì. Per me il centro, il cuore globale del viaggio, è stato in queste parole, pronunciate proprio lì, tra i provati abitanti, poveri ma festanti, di un Paese giovane, che ha lottato e sofferto, e soffre ora di molto altro. Sono parole che ha pronunciato nel suo incontro con i religiosi, con i vescovi: “Ai sacerdoti, in particolare, vorrei dire: ho appreso che il popolo si rivolge a voi con tanto affetto chiamandovi “Amu”, che qui è il titolo più importante, significa “signore”. Però, questo non deve farvi sentire superiori al popolo: voi venite dal popolo, siete nati da madri del popolo, siete cresciuti con il popolo. Non dimenticate la cultura del popolo che avete ricevuto. Non siete superiori. Non deve neanche indurvi nella tentazione della superbia e del potere. E sapete come incomincia la tentazione del potere? Avete capito, vero? Mia nonna mi diceva: “Il diavolo entra sempre dalle tasche”; da qui entra il diavolo, entra sempre dalle tasche. Per favore, non pensate al vostro ministero come a un prestigio sociale. No, il ministero è un servizio. E se qualcuno di voi non si sente servitore del popolo, vada a chiedere consiglio a un sacerdote saggio affinché lo aiuti ad avere questa dimensione tanto importante. Ricordiamoci questo: col profumo si ungono i piedi di Cristo, che sono i piedi dei nostri fratelli nella fede, a partire dai più poveri. I più privilegiati sono i più poveri, e con questo profumo dobbiamo prenderci cura di loro. È eloquente il gesto che qui i fedeli compiono quando incontrano voi sacerdoti: prendono la vostra mano consacrata e la avvicinano alla fronte come segno di benedizione. È bello cogliere in questo segno l’affetto del Popolo santo di Dio, perché il prete è strumento di benedizione: mai, mai, il sacerdote deve approfittare del ruolo, sempre deve benedire, consolare, essere ministro di compassione e segno della misericordia di Dio. E forse il segno di tutto questo è il sacerdote povero. Amate la povertà come la vostra sposa”. Qui si capisce molto, o forse moltissimo, del suo magistero.

Dunque cosa si può dire che rimanga di questo viaggio? Io dire quattro immagini. La prima, a Giacarta, è quella del papa dei ponti che alla firma un documento congiunto, in questo Paese al 97% musulmano, con l’imam della moschea Isitqlal, a due passi da un tunnel. Il tunnel che unisce la moschea con la Cattedrale. Curioso? No. In un mondo desertificato, inaridito nei cuori, i tunnel consentono di unire all’ombra, protetti da un sole troppo accecante, che ci ferma, ci induce ad arretrare. Sono tunnel diversi da quelli di cui si parla oggi. Non mirano a eludere, ma a unire. Come i ponti. Sono dunque tunnel dove la speranza può fiorire, che intendono farla fiorire. Vicino a quel tunnel è emerso il messaggio di tutto il pellegrinaggio: un documento in cui i firmatari, congiuntamente, invocano umanizzazione e cura del creato. E’ la cifra del viaggio.

Poi c’è la seconda immagine. Il papa che arriva a Papua Nuova Guinea, dunque in Oceania. Terra bellissima per i turisti, problematica -a dir poco- per chi ci vive. Qui l’immagine che resta è dei cattolici che lo accolgono, in festa. E la festa la esprimono con i loro ornamenti tradizionali. Sono cattolici, con il capo ornato di piume. Come quegli Indios amazzonici che vennero accolti con il sorriso e la condivisone da Bergoglio ma irrisi da alcuni, perché ornati così vennero a Roma per il sinodo sull’Amazzonia. Tra le ottocento etnie e lingue, quelle ottocento lingue che parlano gli indigeni in Papua Nuova Guinea, anche i cattolici sanno unirsi a tutti gli altri in questa tradizione comune, presagio di un incontro possibile e ormai necessario. Qui, schernirli come si fece con gli amazzonici, non aiuta nessuno; come in realtà non aiutò neanche allora. E’ più importante capire cosa quei simboli significhino per quelle culture, tutte.

Di Timor Est e dei suoi timori, della sua sete di condivisione dei profitti di chi ne usa le ricchezze, si è detto. Qui è l’immagine di un popolo festante per il papa che arriva a trovarlo, pur nelle loro preoccupazioni per l’umanizzazione richieste e la difesa dell’ambiente indispensabile: è la festa dell’incontro quello che resta.

L’ultima immagine, quella che tutto riassume, è il papa che guarda sorpreso i grattacieli di Singapore. E’ l’ultima tappa del viaggio, sembra un altro mondo rispetto a Timor Est. E’ lo stesso però. E qui a chiusura, il papa riassume il suo messaggio, tutti i sensi di questo viaggio, indicando quattro priorità. Di qui sembra evidente che parli a Singapore, ma non solo, anche alla Cina, da Singapore certamente molto vicina. Ecco, dunque le quattro priorità, che si sono rincorse in tutto il viaggio.

Si comincia dalla necessità di avere uno Stato “imparziale”, così dice Francesco, se si vuole vivere insieme. “Singapore è un mosaico di etnie, culture e religioni che convivono in armonia, e questa parola è molto importante: l’armonia. Il raggiungimento e la conservazione di questa positiva inclusività sono favoriti dall’imparzialità dei poteri pubblici, impegnati in un dialogo costruttivo con tutti, rendendo possibile che ognuno apporti il suo peculiare contributo al bene comune e non consentendo all’estremismo e all’intolleranza di acquisire forza e di mettere in pericolo la pace sociale. Il rispetto reciproco, la collaborazione, il dialogo e la libertà di professare il proprio credo nella lealtà alla legge comune sono condizioni determinanti del successo e della stabilità ottenuti da Singapore, requisiti per uno sviluppo non conflittuale e caotico, ma equilibrato e sostenibile”. L’idea “orientale” (e cinese) di “armonia” viene dunque accettata e spiegata però in termini molto importanti. L’armonia non è una sola voce.

A proposito dell’equità il papa loda alcune politiche intraprese da Singapore, come l’edilizia pubblica, e poi dice in modo chiarissimo: “Vorrei segnalare il rischio che un certo pragmatismo e una certa esaltazione del merito comportano, vale a dire la conseguenza non intenzionale di legittimare l’esclusione di coloro che si trovano ai margini dei benefici del progresso”.

Armonia ed equità sociale: due cardini del rapporto possibile, termini da chiarire, camminando insieme. Sempre attento a costruire, il papa al riguardo dell’equità infatti ha subito aggiunto: “Su questo fronte, riconosco e lodo le varie politiche e iniziative messe in atto per sostenere i più deboli, e auspico che venga prestata particolare attenzione ai poveri, agli anziani – le cui fatiche hanno gettato le fondamenta per la Singapore che conosciamo oggi – e anche per tutelare la dignità dei lavoratori migranti, che molto contribuiscono alla costruzione della società, e ai quali occorre garantire un salario equo”.  Questa attenzione all’equità ricorda molto quanto detto in Papua Guinea e a Timor Est, per le questioni interne e per i rapporti globali.

E infatti la terza priorità è il multilateralismo, tanto importante nella visione che auspica il papa: “Singapore ha anche un ruolo specifico da giocare nell’ordine internazionale – questo non lo dimentichiamo – minacciato oggi da conflitti e guerre sanguinose, e mi rallegro che abbia meritoriamente promosso il multilateralismo e un ordine basato su regole da tutti condivise. Vi incoraggio a continuare a lavorare per l’unità e la fraternità del genere umano, a beneficio del bene comune di tutti, di tutti i popoli e di tutte le Nazioni, con una comprensione non escludente né ristretta degli interessi nazionali”.

Siamo alla quarta priorità, che collega le nuove tecnologie alla tutela del creato: “Non possiamo nascondere che oggi viviamo in una crisi ambientale, e non dobbiamo sottovalutare l’impatto che una piccola Nazione come Singapore può avere in essa. La vostra posizione unica vi offre accesso a capitali, tecnologie e talenti, risorse che possono guidare l’innovazione per prendersi cura della salute della nostra casa comune. Il vostro impegno per uno sviluppo sostenibile e per la salvaguardia del creato è un esempio da seguire, e la ricerca di soluzioni innovative per affrontare le sfide ambientali può incoraggiare altri Paesi a fare lo stesso”.

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