“Mi sentivo un corpo estraneo“, con queste parole fornite agli inquirenti R. C., il 17enne reo confesso del triplice omicidio del padre, della madre e del fratellino 12enne la notte del 31 agosto, ha dichiarato la sua colpevolezza. Da diversi giorni psicologi e psichiatri sono interpellati dai giornalisti, per una strage con tantissimi precedenti. Tra questi, condivido in pieno quanto afferma Luigi Cancrini, noto psichiatra, il quale parla di “ragazzi come fortezze vuote, che nascondono l’abisso che hanno dentro dietro un paravento di normalità”, e aggiunge: “Si tratta di giovani che riescono ad avere vite apparentemente normali, pur essendo disturbati (…)”. È proprio così: R. si sentiva oppresso e uccidendo i familiari ha ucciso mostri e fantasmi interiori che lo hanno divorato. La crisi vera è, a mio avviso, degli adulti. Mancano sostegno e vicinanza. Mancano ascolto e dedizione vera all’altro. Manca la cultura del tempo qualitativo da passare con i nostri giovani. Manca uno Stato capace di offrire supporto costante attraverso leggi che vadano incontro anche alle esigenze dei minori che vogliono parlare e magari non hanno l’autorizzazione per farlo. Se mi fermo un attimo, però, mi preme subito rivolgere un ricordo sentito alla madre, al padre e al fratellino di R. Silenzio e preghiera sono le uniche note che riesco ad ascoltare dinanzi a cotanta morte nefasta.
Ritornando a R., le parole “Mi sento solo anche in mezzo agli altri” testimoniano la solitudine del ragazzo e la frustrazione che lo abita. È una frustrazione legata al non sentirsi pensato, amato. Il grande educatore dei giovani don Bosco sosteneva che non basta amare i ragazzi ma occorre che essi sentano di essere amati. Probabilmente a R. è mancato questo, sentirsi amato, pensato. Tali considerazioni non giustificano in alcun modo l’azione svolta dal ragazzo ma hanno l’intenzione di aiutare a scavare a fondo di un’interiorità che troppo spesso viene tralasciata, non considerata. La fantasia di sopprimere i genitori è un pensiero che abita a volte la mente degli adolescenti, è ricorrente in diverse storie. Poi spesso (non sempre) scompare con la crescita dei ragazzi.
Se avvengono omicidi così efferati, significa che stiamo sbagliando più di qualcosa. Dobbiamo rimboccarci le maniche e fare di più. Non bastano più le considerazioni da bar del tipo “Ormai non si capisce più nulla”, “Siamo tutti impazziti” e così via. Dobbiamo essere capaci di ascoltare di più, di esserci davvero dicendo “no” al nostro smartphone e “si” al nostro prossimo. Manca l’incontro. Stiamo costruendo una società violenta, in cui ognuno è indifferente all’altro e tutela solo il proprio Sé. Dobbiamo ricominciare a dare importanza alla relazione umana, altrimenti prenderà sempre più piede la frustrazione esistenziale, il disagio legato alla mancanza di significato. E se non c’è un senso, l’adolescente legge come inutile la vita. E lì diventa tutto possibile: anche uccidere per dare voce al proprio Io, distruggere l’altro per (illudersi di) far nascere sé stessi. Non è questa la società a cui aneliamo. Chi vuole può contribuire a cambiare rotta. L’angoscia esistenziale di R. è un grido di aiuto in una società sorda, giudicante, colpevolizzante e passiva. Il grido di Riccardo ha una grande eco nell’animo di molti giovani. Il rischio è che casi del genere possano diventare una costante.
Il nonno materno di R. così si esprime: “Soffro per la perdita di mia figlia, ma non abbandono mio nipote, voglio restare accanto a lui. Non so perché l’ha fatto, ma nonostante il dolore per queste perdite vogliamo incontrarlo al più presto”. Nelle parole di questo nonno c’è un amore che va oltre ogni giudizio e che ritorna all’importanza dell’incontro con la profondità dell’umano, nonostante tutto.
Abbiamo bisogno di ritrovare i valori di base. Abbiamo necessità di ricominciare a parlare dell’importanza del senso della vita attraverso cose semplici (ma sempre più rare) come l’incontro autentico da persona a persona anziché da pc a pc. Per farlo, dobbiamo attivarci tutti, ognuno nel suo ruolo e con la sua personalità. Possiamo e dobbiamo provare ad essere maggiormente presenti e forse riusciremo ad incontrare qualche altro “R”. Nascosto nell’animo di qualche ragazzo magari non così lontano da noi e potremo aiutarlo. Sarebbe bello perché aiuteremmo un giovane in crisi a non sentirsi solo in mezzo agli altri ma vivo e capace di valorizzare l’incontro io-tu per vivere l’unione e il senso di comunità che ogni ragazzo dovrebbe sperimentare nella sua esistenza. La tragedia di R. e della sua famiglia non ci lasci indifferenti e ci spinga ad essere più presenti e più umani, tutti!