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L’incredibile storia di Salton Sea, mare per sbaglio

Un mare interno, creato dalla rottura di un canale di scolo, stimola l'idea di una Las Vegas marittima. Il sogno, però, si sarebbe infranto presto

C’è stato un momento in cui il sogno americano fu distorto, infettato dal lato oscuro della febbre dell’oro. Un’illusione ottica, o forse un miraggio visto che lo scenario era quello del deserto. L’ambizione di trasformare le sabbie aride in spiagge da sogno. Quella di utilizzare un bacino d’acqua stagnante in una riviera con tanto di lidi, ombrelloni e pubblicità ottimiste da boom economico. Tutto sfumato in un soffio, col sogno a volare via con il vento del deserto del Colorado, lasciandone i resti a imperitura memoria. Non per i posteri però, visto che sulle rive del Salton Sea, in California, non ci vive nessuno. E quei pochi che ci riescono lo fanno stretti tra l’incudine della migrazione obbligata dal vicino Messico, e il martello dell’inquinamento che avanza, lasciando scheletri di ogni forma e dimensione. Quelli corporei, perché nemmeno la fauna ittica regge più di tanto a quelle acque lì. E anche quelli del tempo che fu, quando gli anni Sessanta tentarono di spazzare via gli ultimi ricordi della guerra e, al contempo, di allontanare la paura del Ragnarok tra i due blocchi.

Salton Sea, l’oro del deserto

Quella del Salton Sea, il più grande lago (salato) della California, è una storia che ben definisce il confine tra abbaglio e ambizione. Nato per sbaglio a inizio Novecento – da una combinazione tra inondazione e convoglio dei canali di scolo agricoli nell’immensa depressione dell’Imperial Valley – e riscoperto negli anni Cinquanta da chi, nelle sue acque blu, intravedeva una nuova Las Vegas, per un po’ il Salton riuscì persino a illudere il Golden State di essere davvero il mare del deserto. Come il Lago Mead ispirò gli investitori per trasformare il turismo della vecchia Vegas in un paradiso per super-ricchi in pieno Mohave, altrettanto azzardò la California, convinta che aprire al denaro della nuova America potesse trasformare le piane desertiche in lidi da sogno. Salton City a ovest, Bombay Beach a est: tutto sorse dal nulla e in mezzo al nulla. Ma, a favore di vento, c’era il desiderio di benessere, di averlo realmente a portata di mano. Di offrire a chi aveva patito gli anni della follia la piena conferma che tutto potesse essere trasformato in oro. Persino la sabbia del deserto.

Sabbie fertili

Eppure, quel luogo non sempre è stato polvere e scheletri. Persino il Salton Sea, frutto di un incidente, è figlio stesso del tentativo di rendere fertile un luogo del tutto privo di sorgenti d’acqua. Ci provò, la California, all’inizio del Novecento, quando l’applicazione dell’agricoltura intensiva poggiava sulla realizzazione di una rete di canali di irrigazione, con acqua prelevata dal fiume Colorado per convogliarla direttamente nell’Imperial Valley. Strategia che funzionò senza incidenti solo per breve tempo: nel 1905, infatti, la piena del corso ruppe gli argini di uno dei canali, riversando nel bacino naturale enormi quantità d’acqua (con relativa fauna) per i successivi due anni, creando un “Unintentional Sea”, come è stato chiamato dal musicista Rafael Anton Irisarri nell’omonimo album. Di fatto, una volta terminato il riempimento involontario, il Salton divenne l’icona di un luogo remoto e asciutto, fino a quel momento apparentemente inadatto a ospitare lo sprint della vita americana di inizio secolo. Serviranno, però, una cinquantina d’anni affinché, effettivamente, si inizi a pensare di trasformare la curiosità per il lago in un vero e proprio business.

La fine del sogno

L’esperimento della Las Vegas californiana funzionò finché non fu la stessa natura a decidere di intervenire di nuovo. La furia delle acque, stavolta, fu alimentata dai venti dell’uragano Kathleen, che nel 1976 si abbatté sugli Stati Uniti occidentali e, con particolare violenza, su quest’area della California. Le inondazioni provocate dalla tempesta distrussero quasi completamente il villaggio di Ocotillo e alimentarono per giorni le acque del Salton che, privo di emissari, iniziò a gonfiarsi travolgendo Bombay Beach e tutti i lidi che prosperavano sulle sue sponde apparentemente tranquille. Il che, di fatto, fu solo l’apice di una fine annunciata. Perché il lago stesso, in un certo senso, aveva iniziato a respingere turisti e bagnanti in cerca di svago, mostrando i segni evidenti di uno squilibrio ambientale dovuto alla sua stessa origine. Passate le piene, infatti, l’unica alimentazione delle acque restò dovuta all’apporto dei canali di scolo dei campi agricoli a monte, cariche di pesticidi e sali minerali. Una combinazione che, in breve tempo, portò l’acqua blu del Salton Sea a una carica tossica in grado di sterminare la fauna e di produrre un letto di alghe putride. Uno specchio d’acqua di oltre mille chilometri quadrati, in sostanza, divenne inavvicinabile per la balneazione e, di conseguenza, inadatto a qualsiasi tipo di attività ricreativa.

Il destino di Salton Sea

Come le boom town della corsa all’oro, anche il litorale del “mare per sbaglio” finì per diventare una sorta di città fantasma. Del sogno di benessere e dell’idea del turismo, inteso nella sua più comune declinazione, restano dei ricordi incrostati di sale e corrosi dall’aria melensa, accentuata dalla rapida decomposizione degli animali sulle rive del lago. Un luogo dimenticato, come Bannack o gli scalini di ghiaccio di Chilkoot Pass, abitato solo da chi, per scelta o per necessità, ha deciso di vivere anch’egli da dimenticato. Nel disastro ecologico irreversibile che, complice la rapida evaporazione, potrebbe portare Salton Sea alla stessa fine del Lago d’Aral entro qualche decennio (esponendo peraltro un terreno carico di sostanze inquinanti), c’è chi tuttavia intravede un lato romantico. La bellezza del paesaggio, le storie di vita ancora sparse qui e là tra i resti dei bungalow, il rumore unico delle acque in un luogo remoto… Elementi sufficienti per una tela o una fotografia. O magari per un racconto.

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