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Quale impatto della fine del programma di acquisto BCE

Sembra strano parlarne ora, visto che il Quantitative Easing da parte della BCE è terminato quasi sei anni fa, esattamente a settembre 2018, ma, in effetti, in pochi se ne sono accorti e, spesso, torna in auge il monito sulle possibili difficoltà da parte dell’Italia senza un ausilio da parte della BCE dal lato del debito.

In realtà alla domanda “che cosa succederebbe se…?” la risposta reale è “nulla”, non è successo nulla e difficilmente succederà in futuro, sempre che i futuri governi non inizino politiche di spesa folli.

Ma da cosa deriva questo timore?

Sicuramente dalla mancata comprensione di cosa fosse il QE adottato da Francoforte.
Questo, infatti, non doveva servire come una sorta di “consorzio di garanzia” al momento dell’emissione di un bond, in questo caso un titolo di stato, perché la banca centrale non poteva agire in fase di asta ma solo acquistare i titoli del debito pubblico degli stati membri sul mercato secondario; l’operazione, in realtà, aveva sì un effetto di compressione del tasso di emissione dei titoli creandone scarsità e aumentando la domanda sulle nuove emissioni, anche spingendo diversi operatori ad acquistare BTP, nel caso italiano, per poi rivenderli quando il prezzo andasse oltre la pari, ma non era questo l’obiettivo principale perseguito.

Già nel 2013, con l’allentamento della crisi che aveva spinto l’azione espansiva della BCE sotto il mandato da Governatore di Mario Draghi, si era iniziato a parlare di tapering, cioè di una riduzione degli strumenti eccezionali di politica monetaria iniziando dal QE, ma per la chiusura del programma si è dovuto aspettare altri 5 anni per il timore di una nuova “esplosione” dei tassi che avrebbero potuto mettere in difficoltà gli Stati membri UE. Questo non è avvenuto, né con la progressiva riduzione del programma di acquisto né con la successiva interruzione dello stesso.

Se da una parte non si è verificato nessun sell off dei titoli in pancia alla Banca Centrale, in quanto la previsione è quella che, in gergo, viene definita “hold to maturity”, cioè il mantenimento dei titoli in portafoglio fino alla scadenza, dall’altra la nuova crisi generata dalla pandemia ha spinto nuovi programmi di finanziamento degli stati, in primis il NGEU, che hanno aumentato la possibilità di spesa e il minor ricorso all’emissione di titoli di stato permettendo il mantenimento degli oneri a livelli più che sopportabili nonostante la crescita, praticamente in ogni angolo del continente, dell’indebitamento pubblico.

Confusi?

Probabile anche perché la narrazione di certi media e dei social in questi anni non è stata, diciamo, molto precisa sull’argomento e, spesso, soprattutto su questi ultimi è stata foriera di miti e leggende nere sul futuro finanziario soprattutto di questo Paese.

La prima cosa da tenere a mente, infatti, è che un qualsiasi programma di QE non va a ridurre il debito degli stati, non si tratta, infatti, di un annullamento dei titoli da parte di un “prestatore di ultima istanza”, cosa che la BCE non è, ma di un acquisto da parte di un operatore economico, seppur particolare, in cambio di un’immissione di liquidità nel sistema; in pratica con il QE non si va a sostenere lo stato ma a aumentare la liquidità temporaneamente emettendo nuova valuta in cambio di titoli di debito, partita contabile che si chiuderà con il rimborso a scadenza del titolo da parte dell’emettitore.

Questo significa che per lo stato emettitore l’acquisto da parte della BCE dei titoli è completamente ininfluente, se lo stock di debito emesso fosse pari, ad esempio, a 10mld a un tasso del 3% così rimarrebbe anche con la prosecuzione del programma.

Ma lo spread?

Ecco anche nel dipingere lo “spauracchio spread” si torna alla percezione distorta data dalla narrazione degli ultimi quattordici anni, sin da quando questo parametro fu usato per spingere alle dimissioni il governo Berlusconi quater.

Lo spread altro non è che il differenziale esistente tra il tasso di rendimento del Bund tedesco, considerato il titolo più stabile sul mercato, con quello dello stato europeo considerato ma non dice nulla, alla fine, sulla vera sostenibilità del debito esistente. Giusto a titolo di esempio ci sono stati momenti che i tassi negativi del Bund corrispondessero a livelli piuttosto elevati di spread sul BTP che, però, si traducevano in tassi di interesse effettivi molto contenuti, rispetto alla media delle emissioni passate e viceversa.

Il vero campanello di allarme dovrebbe scattare quando elevati livelli di spread si coniugassero a tassi di emissione elevati ma questo non è mai passato del “comune sentire”.

La cosa interessante, però, è che oggi i tassi di emissione dei BTP siano nettamente inferiori anche al tasso di riferimento BCE, l’ultimo BTP a 10 anni prevede un rendimento del 3,76% lordo mentre maturity più lunghe, come la scadenza al 2041, dono ben sotto il 3% addirittura a 2,55%.

Come si può ben vedere l’impatto della fine del programma di acquisto da parte della BCE è stato pressoché nullo, diversamente dall’inasprimento della politica monetaria con l’aumento, dallo scrivente giudicato eccessivo e immotivato come riportato in diversi articoli passati, che ha avuto un effetto assai significativo sia sulla ripresa post-pandemica sia sulla capacità di spesa dei residenti nell’Unione e sul livello degli investimenti ma questo è un altro discorso.

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