Il nuovo Regno Unito: Starmer e il partito della spesa pubblica

Con i lab di nuovo a Downing Street, l'obiettivo è perseguire il cambiamento promesso. Ma la strada appare già in salita

Regno Unito
Foto di Arthur Osipyan su Unsplash

“Se crolla la banca d’Inghilterra… crolla l’Inghilterra”. Parola di Mr. Dawes Senior, versione caricaturale dell’establishment britannico, tutto mise e operosità danarosa. Tuttavia, un concetto interessante, almeno nella sua concezione satirica: una stabilità economica per un benessere collettivo. Una visione quantomeno semplicistica viste le numerose implicazioni che un tessuto sociale riserva sovrapponendo il piano sociale a quello economico (e viceversa). Eppure, mai come ora, il Regno Unito vive la sfida di una stabilità necessaria, tanto per dare l’ultima spallata ai legami con l’Europa dell’euro, quanto per aprirsi definitivamente ai mercati del Commonwealth. La palla, sgonfiata dagli ultimi balbettanti governi Tory, è passata dopo quattordici anni ai laburisti del leader nuovo, Keir Starmer. Il quale, però, rischia di dover tenere la barra del timone verso una rotta più vicina al vecchio corso economico-politico che ai cambiamenti promessi. Interris.it ne ha parlato con Bepi Pezzulli, direttore di Italia Atlantica.

 

Dottor Pezzulli, dopo 14 anni un cambio di rotta politica che, per il Regno Unito, significa apparentemente un cambiamento. Cosa dobbiamo aspettarci dal ritorno in sella dei laburisti, in primis nelle relazioni con l’Europa?

“Innanzitutto possiamo 2scludere qualsiasi discorso di riapertura. Anche Keir Starmer lo ha escluso. La stampa mainstream, ovviamente, ha iniziato a suonare la grancassa di un riavvicinamento all’Europa. Questo non è del tutto vero. Tra Uk e Ue è stato stipulato il cosiddetto Trade and Cooperation Agreement (Tca), che regola le relazioni bilaterali dopo la Brexit. Si tratta di uno degli accordi di libero scambio tra i più avanzati al mondo. A tariffa zero, senza dazi, senza quote… È estremamente liberalizzato e non si estende ai servizi, il commercio è senza frizioni. Se questo non è successo, finora, è per la politica di controllo doganale adottata dall”Europa. Questo perché continua con il suo approccio punitivo per non ribaltare la narrativa che l’uscita dall’Unione sia una cosa negativa, soprattutto dopo che la destra nazionalista ha vinto in alcuni Paesi chiave”.

La Brexit è un argomento ormai invecchiato…

“La Brexit, in Inghilterra, è un discorso ormai chiuso. Fortunatamente, poiché nuovi trattati prevedono l’adozione dell’euro per entrare in Ue, il Regno Unito della sterlina non rientrerà mai in questi discorsi. Sarebbe quindi ora che, anche in Italia, dopo otto anni la Brexit venga messa in soffitta. La politica generale del Regno Unito è quella di tutelare il proprio interesse nazionale. E quello strategico, al momento, è il mercato indopacifico. Da un lato si è sostituito il mercato europeo con quelli del Commonwealth. Dall’altro, la sicurezza strategica ed economica è ormai direzionata nell’Indo-pacifico. A giorni si firmerà l’accordo di libero scambio con l’India”.

Dal punto di vista economico, quale Regno Unito ereditano i laburisti?

“Dal 1997, il Regno Unito ha eseguito la stessa politica economica, il blairismo. Questo ha portato a più tasse, più spesa pubblica, più debito pubblico, più immigrazione, più regolamentazione. Fondamentalmente, il governo labour eredita una situazione economica in linea con i loro progetti e le loro ideologie economiche. Ci possiamo aspettare più tasse, più debito pubblico, più immigrazione incontrollata”.

Anni di blairismo, però, hanno avuto come culmine la manovra sul mini-budget costata, a tempo di record, la premiership di Liz Truss

“Dopo il Covid, tutte le economie del mondo sono state drogate dalla spesa pubblica. Il problema è che quando questa sale, si creano degli interessi economici molto consolidati, perché favorisce chi non è in grado di stare in concorrenza, non è competitivo o non ha un’alta produttività. Si forma quindi, dentro le Nazioni, il partito trasversale della spesa pubblica. Chiunque cerchi di ridimensionare o tagliare la spesa pubblica, cammina con un bersaglio dietro la schiena. È successo con Trump, Boris Johnson, Liz Truss… Il problema si traduce nella narrativa di mancata legittimità politica. La stessa Liz Truss è stata fatta saltare dopo il mini-budget e 49 giorni di governo. Andata via, gli spread sono aumentati, così come il debito”.

I Tories sono davvero così fuori gioco?

“Il partito conservatore è spaccato a metà tra l’ala thatcheriana, che persegue idee economiche conservatrici, e l’ala dei One Nationist, che sono centristi liberaldemocratici, guidati da Rishi Sunak. E proprio per colpa di questa spaccatura che si è formato Reform Uk, partito conservatore thatcheriano che si è portato via mezzo Tory. Finché non si risolve questa divisione tra i veri conservatori e quelli che Margaret Thatcher definiva ‘white Tories’, non si avrà più una forza politica affidabile”.

Con l’avvento di Keir Starmer si era parlato di decentramento del partito dopo gli anni a guida Corbyn. 

“Sotto Corbyn, il partito laburista era apertamente antisemita e antisionista, con una politica socialista anni Settanta. Il problema è che Starmer, secondo me, non controlla il partito e lo abbiamo visto in campagna elettorale. Quando ha dichiarato che l’Inghilterra non si farebbe scrupoli a usare il deterrente nucleare, la sua vice e vera leader del partito, Angela Rainer, ha dichiarato che il labour è a favore della denuclearizzazione. Poiché il Lab ha ottenuto questa maggioranza così ampia e non ha un’opposizione vera in parlamento, questa si formerà dentro lo stesso partito tramite divisioni in correnti. Le quali, fra loro, si divideranno. E, alla fine, l’anima di sinistra pura emergerà e ci sarà un periodo piuttosto instabile nel governo laburista. Gli scenari sono quindi aperti”.

Quanto inciderà la politica fiscale sul consenso reale?

“Hanno cominciato subito con la tassa sulle successioni. Poi ci sarà un inasprimento della Corporate Tax, mentre il governo conservatore era in procinto di riportarla al 15%. Poi c’è una serie di tasse indirette: hanno deciso, ad esempio, di far pagare l’Iva anche alle scuole private. E questo potrebbe essere un disastro, con decine di migliaia di studenti che dovranno essere riassorbiti nel sistema pubblico, che ha già problemi di sovraffollamento e scarse risorse. Gli inasprimenti fiscali saranno inizialmente occulti ma, alla fine, andranno allo scoperto. Dopo che debito e spesa pubblica sono stati aumentati, non è pensabile non avere inasprimenti fiscali”.

A proposito di studenti, l’uscita definitiva da Ersamus + è davvero un problema?

“Non sono mai stato un fan di Erasmus. Migliaia di persone all’anno studiano in America senza che esista questo progetto. La mobilità studentesca e accademica è sempre esistita senza che esistesse Erasmus. Le università del Regno Unito, tra le più internazionali e cosmopolite del mondo, possono continuare ad attrarre studenti anche senza un programma come Erasmus. D’altra parte, bisogna smetterla con l’eurocentrismo: gli studenti europei, per i quali il progetto era stato pensato, rappresentano sostanzialmente una minoranza. Gli studenti cinesi, arabi, africani, indiani, sono sempre venuti a studiare in Inghilterra senza Erasmus. Il sistema meritocratico continua esistere, il sistema di massa è frutto di una burocrazia che meritocratica rischia anche di non esserlo”.