Domenica scorsa eravamo in un viaggio accidentato verso “l’altra riva”, quella dei Gesarèni, territorio pagano. Lì Gesù ha guarito un uomo posseduto da una Legione di demòni che, uscendo dall’uomo e col permesso di Gesù, si gettarono su una mandria di porci che pascolava nelle vicinanze e i duemila porci si precipitarono nel lago (Marco 5,1-20). Un insolito miracolo di Gesù, che la liturgia (per fortuna!) ci fa “saltare”. Oggi siamo di nuovo sulla riva occidentale del lago e l’evangelista ci rende partecipi di altri due miracoli di guarigione. Le protagoniste del racconto questa volta sono due donne, accomunate dalla cifra dodici: una donna “che aveva perdite di sangue da dodici anni”, e una fanciulla di dodici anni, malata grave, per la quale il padre, Giairo, era venuto a chiedere la guarigione. Il racconto ci mette in cammino con la folla che accompagna Gesù andando verso la casa di Giairo.
Il binomio fra vita e morte
L’insieme delle letture di questa domenica girano attorno ad un tema cruciale dell’esistenza: il binomio vita e morte! La prima lettura (Sapienza 1-2) ci rassicura che il piano di Dio è che l’uomo viva: “Dio non ha creato la morte… Egli ha creato tutte le cose perché esistano… e ha creato l’uomo per l’incorruttibilità”. Il Salmo 29 è un inno di ringraziamento per la vita riscattata dalla morte. La seconda lettura (2Corinzi 8) è un invito a condividere la vita attraverso la condivisione dei beni. Il vangelo ci porta a fissare il nostro sguardo su Gesù che reca la vita ovunque passa, testimoniando così quanto egli dice in Giovanni 10,10: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. L’unica condizione per accoglierla è la fede: “Figlia, la tua fede ti ha salvata”, dice Gesù alla emorroissa che aveva toccato il suo mantello; “Non temere, soltanto abbi fede!”, dice Gesù a Giairo quando riceve la notizia della morte della sua figliola.
La parola di Dio suggerisce alcuni spunti che ci invitano a riflettere sul nostro rapporto con la vita. Ne prendiamo uno per lettura, salmo incluso.
- La vita è GRAZIA! È grazia nel senso di dono, ma anche nel senso di graziosità. La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, esalta la bontà della vita: “Le creature del mondo sono portatrici di salvezza”. L’autore del libro trasmette un senso di ottimismo riguardo all’esistenza, che gli viene senza dubbio dalla fede nel “Signore, amante della vita” (Sapienza 11,26), ma anche da un sano rapporto con il mondo. Oggi questo “sano ottimismo” sembra venire meno. Anche tra i giovanissimi, che dovrebbero essere una perenne manifestazione di esuberanza della vita stessa. Desta preoccupazione e sgomento vedere il crescente numero di coppie che si precludono alla fecondità, perché convinte che questa società non abbia futuro. Una visione positiva della vita manca spesso anche nelle nostre comunità, che giovani non sono ma che dovrebbero essere animate dalla perenne giovinezza dello Spirito del Risorto. E cosa dice di noi cristiani la mentalità comune che pensa che Dio mortifica la vita con leggi e divieti? Quale immagine di Dio abbiamo trasmesso?
Un sano ottimismo riguardo alla vita oggi non è spontaneo, va coltivato e protetto da discorsi carichi di catastrofismo. Questo atteggiamento positivo è una scelta, un’opzione di vita che viene dalla convinzione di fede che lo Spirito è l’anima della Chiesa ed è permanentemente all’opera nel mondo e nella storia. Oggi il cristiano è chiamato a testimoniare la bontà e la bellezza della vita. - La vita è FRAGILE. Il Salmo sottolinea la fragilità della vita, minacciata dalla morte: “Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa”. Tutto quello che è bello è anche fragile. Forse per meglio apprezzarne la gratuità e non darla semplicemente per scontata. Stimare, coltivare e curare la salute e la qualità della vita è cosa buona. Il problema è quando questa cura diventa accanimento e ossessione. Allora ci può capitare come all’emorroissa del vangelo che “aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando”. In genere noi cerchiamo di rimuovere dalla mente il pensiero della morte. Il problema è quando la morte diventa un tabù. Questo diventa una deliberata inconsapevolezza e, alla lunga, incoscienza. La saggezza umana e cristiana ci invita a riconciliarci con i limiti della vita e la prospettiva della morte. La fragilità fa parte della nostra condizione di creature. Qual è il segno della nostra riconciliazione con la morte? Quando siamo capaci di donare la vita! Questo richiede, però, un esercizio continuo di “morire” ogni giorno a noi stessi, mettendo la nostra vita al servizio degli altri, sull’esempio del Maestro.
- La vita va CONDIVISA. Nella seconda lettura troviamo l’esortazione di San Paolo alla comunità di Corinto per incoraggiarla a partecipare con generosità alla colletta in favore della comunità madre di Gerusalemme, che si trovava in serie ristrettezze: “Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza”. La condivisione di beni è condivisione di vita. Tutti siamo coscienti quanto ciò sia urgente nel nostro mondo, dove crescono a dismisura le disuguaglianze. Non ci sarà pace senza giustizia. L’egoismo, l’accumulo e l’accaparramento dei beni seminano la morte. Il cristiano è chiamato a testimoniare la beatitudine proclamata da Gesù, secondo San Paolo: “Si è più beati nel dare che nel ricevere!” (Atti degli apostoli 20,35). La generosità, tuttavia, non è un atteggiamento spontaneo, specie se comporta la rinuncia a certe comodità. Essa implica la fede nel “centuplo” promesso dal Signore e l’esercizio continuo della larghezza di cuore.
- La vita ci è AFFIDATA. Il vangelo ci offre diversi spunti di riflessione. Soffermiamoci su uno, sull’intercessione di Giairo in favore della vita di sua figlia: “La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. Ci commuove la supplica di questo padre, inginocchiato davanti a Gesù. Il Signore, condividendo il suo dolore, “andò con lui”. Tutti siamo chiamati ad essere sensibili al dolore altrui, ad andare verso colui che soffre e a lenire la sua pena, per quanto sia possibile. La vita degli altri ci è affidata. C’è una miriade di maniere pratiche di vivere la “compassione”, la solidarietà e la fratellanza umana. Grazie a Dio, questa sensibilità va crescendo, accomunando credenti e non credenti. Ma c’è una modalità tipica del credente che si sta affievolendo: la preghiera di intercessione. La secolarizzazione ci ha aiutati a prendere coscienza dell’autonomia del mondo e del dovere intrasferibile di prenderci cura di tutto il creato, attraverso l’esercizio responsabile della tecnica e della scienza. Dio non è un “tappabuchi”, come si suole dire. Senza dubbio questa nuova consapevolezza e sensibilità è una grazia perché purifica la fede, rendendola più genuina. Ma se è così, a cosa “serve” pregare? È la domanda di tanti e forse anche la nostra. Alcuni teologi arrivano ad affermare che l’unica vera preghiera sia quella della lode o, addirittura, il solo atteggiamento di abbandono filiale alla “volontà” di Dio.
Tutta la tradizione biblica, la rivelazione di Dio nella sua incarnazione in Gesù di Nazareth, la tradizione ecclesiale e liturgica cozzano con questo riduzionismo che rischierebbe di concepire la prassi cristiana come semplice azione e, al limite, attivismo. La preghiera autentica, che non è sotterfugio o alienazione, è una modalità privilegiata di azione della fede. Noi e il mondo abbiamo bisogno di preghiera, sia essa di supplica, di intercessione, di ringraziamento, di lode o di abbandono. La preghiera è un “patrimonio mondiale”, un deposito a cui attingono tutti, credenti e non credenti, anche a nostra insaputa, in un modo che ci risulta misterioso. L’azione e la lotta per una società più giusta e fraterna è efficace perché fecondata dalla grazia. Dio ci affida la vita e la cura dei fratelli. La preghiera di intercessione è un prendersi cura dei fratelli, è “portare i pesi gli uni degli altri” (Galati 6,2).
Per concludere, ritorniamo alle due donne del vangelo, la fanciulla e la donna adulta, accomunate da una situazione di perdita di “vitalità”. Questo ci porta a considerare la tematica della dignità della donna, sorgente e culla della vita, diventata oggi di urgente attualità. Solo promuovendo la dignità della donna è possibile rigenerare la vita. Come farlo? Ci può inspirare questo commento rabbinico, ripreso dal Talmud, un testo sacro dell’ebraismo: “State molto attenti a far piangere una donna, che poi Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale… un po’ più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere amata”.