Le notizie dei recenti naufragi nel Mediterraneo, definito dal Santo Padre “il più grande cimitero d’Europa”, ci ricorda il dramma di chi perde la vita nella speranza di salvarsi da una guerra, dalla povertà, dalle persecuzioni, dagli effetti del cambiamento climatico. A crisi così radicate da essere quasi dimenticate, come quella in Siria, e a quelle che si riacutizzano, come nella Striscia di Gaza, se ne aggiungono altre come la guerra civile in Sudan scoppiata oltre un anno fa. Sono sempre di più le persone migranti che si trovano costrette a lasciare la propria casa e in molti casi anche il proprio Paese, il doppio rispetto a dieci anni fa, secondo il Rapporto Global Trends di Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati. Ma aumentano gli sfollati interni, quelli cioè che restano dentro i propri confini, e complessivamente circa il 70% di chi fugge si ferma nei Paesi limitrofi o in quelli a basso e medio reddito.
L’intervista
In occasione della Giornata mondiale del rifugiato, Interris.it ha approfondito i contenuti del rapporto con il portavoce di Unhcr Italia Filippo Ungaro.
La cifra delle persone in fuga sale da 12 anni di fila, arrivando a 120 milioni. Come commenta questi dati?
“Sono numeri estremamente preoccupanti, dovuti a un aumento esponenziale delle situazioni di conflitto nel mondo. La stessa Unhcr ha dichiarato 43 emergenze, il numero più alto degli ultimi dieci anni per la nostra agenzia. E questa tendenza è destinata ad aumentare se non si risolve la conflittualità internazionale, intervenendo con politiche basate sulla cultura della pace e di sostegno allo sviluppo”.
Da dove si fugge?
“Le situazioni che hanno generato l’incremento di quest’anno sono i conflitti in Sudan, che ha sradicato dalle proprie abitazioni oltre dieci milioni di persone, in Repubblica democratica del Congo, in Myanmar, nella Striscia di Gaza dove quasi la totalità della popolazione è in fuga, in aggiunta a quanto già avveniva in Afghanistan, Venezuela e Sudan. Tutt’ora però la più grande crisi di rifugiati resta quella in Siria, con 13,8 milioni di sfollati. Inoltre, i tre quarti delle persone in fuga vivevano in Paesi vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico. Si fugge dalla guerra in qualsiasi modo perché costretti, spesso affidandosi a trafficanti di esseri umani, in assenza di canali regolari”.
Nel vostro rapporto evidenziate anche l’aumento del 50% degli sfollati interni, quando di solito pensiamo che chi fugge scappa dal proprio Paese.
“Questa è la dimostrazione che nessuno vorrebbe abbandonarlo, se non fosse in condizioni di pericolo. La guerra annulla le possibilità di sopravvivenza, a causa della distruzione delle infrastrutture civili e della perdita di lavoro. La maggior parte dei migranti poi trova ospitalità nei Paesi limitrofi, anche quelli a medio o basso reddito, che aprono i confini e li accolgono, anche per trarne loro stessi beneficio”.
Dall’inizio dell’anno nella sola rotta del Mediterraneo centrale si registra una media di quasi cinque tra morti e dispersi al giorno. I canali regolari e legali sono insufficienti?
“I corridoi umanitari e i canali lavorativi o universitari sono soluzioni decisamente corrette da favorire e da promuovere perché sono vie legali, gestibili e pianificabili. Ma al momento i numeri sono piccoli, in termini assoluti, per cui nel frattempo serve rafforzare il soccorso in mare. Gli sbarchi sono diminuiti del 60%, ma il numero dei morti non sembra scendere”.
Quali prospettive di accoglienza e inclusione aspettano chi riesce ad arrivare?
“In Italia il nostro programma ‘Welcome. Working for refugee integration’ ha realizzato 30mila percorsi di inserimento lavorativo grazie al coinvolgimento di 700 aziende. Una soluzione che aiuta anche colmare il denunciato mismatch tra domanda e offerta di lavoro”.
Quali sono i numeri del nostro Paese, dove tra l’altro spesso emergono difficoltà legate al riconoscimento delle forme di soggiorno e protezione?
“Alla fine del 2023 in Italia i titolari di qualche protezione internazionale, i richiedenti asilo e gli apolidi erano in totale poco meno di 450mila persone. Per restare nell’Unione europea, la Germania ospita 2,6 milioni di rifugiati, al di fuori ci sono Iran con 3,8 milioni e Turchia con 3,3 – complessivamente il 75% dei rifugiati è nei Paesi limitrofi e in quello a basso reddito. La condivisione delle responsabilità deve essere rafforzata, al di là di una narrativa emergenziale o della percezione del fenomeno, perché si parla di numeri che possono essere gestiti in maniera ordinata ed efficace. Purtroppo nel nostro Paese si riscontrano ancora grandi difficoltà di ordine burocratico e questo si traduce molto spesso in lunghe attese, durante le quali si assiste a situazioni di estremo disagio, con queste persone che si ritrovano in sistemazioni non dignitose per chi ha tanto sofferto e avrebbe diritto di vedere presa in considerazione la domanda di asilo.
Prendendo spunto dalle parole del Papa su fatto che le persone dovrebbero essere libere di scegliere se restare nei propri Paesi o migrare, e non invece essere costrette ad andarsene, come si può intervenire sulle cause del fenomeno?
“Le soluzioni sono il rispetto del diritto internazionale, il multilateralismo, la risoluzione conflitti con la cultura della pace, il sostegno allo sviluppo dei Paesi fragili, sempre da un punto di vista multilaterale e non bilaterale. Inoltre c’è bisogno di un racconto e di un approccio diverso al fenomeno, non emergenziale ma pragmatico. Vista la denatalità e la necessità di forza lavoro, l’immigrazione è un’opportunità per le comunità di accoglienza e con la diversità la società si arricchisce. Purtroppo assistiamo a tutto il contrario. Non ci sono risposte semplicistiche, ma la gestione europea umana e ordinata della fuga dall’Ucraina dopo lo scoppio della guerra può insegnare qualcosa. Anche il piano Mattei può essere un’opportunità, soprattutto perché nelle premesse parla di rapporti paritari e quando si fanno politiche di sviluppo ritengo sia prioritario creare relazioni su base paritaria e nell’interesse delle nazioni africane stesse. Pace e sviluppo economico sono processi lenti e lunghi ma bisogna cominciare a intraprenderli”.
Come valuta il nuovo Patto su immigrazione e asilo dell’Ue?
“È difficile capire adesso che impatto avrà perché molto dipenderà dai piani di implementazione che gli Stati Ue dovranno stilare secondo le direttive che stabilirà la Commissione europea. E’ chiaro che l’accordo è frutto di un compromesso, tuttavia dal nostro punto di vista è un passo in avanti rispetto al precedente sistema, ci pare venga creato un meccanismo di responsabilità comunitario”.