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Allargamento Ue, 20° anniversario e prospettive future. Intervista a Bonomi (Iai)

Nel ventesimo anniversario dello storico maxi allargamento dell’Unione europea, che il 1° maggio 2004 passava da 15 a 25 Stati membri, Interris.it ha intervistato Matteo Bonomi, responsabile di ricerca nel programma Ue, Politiche e Istituzioni dell'Istituto Affari Internazionali (Iai)

Il 1° maggio 2004 avveniva un fatto storico. Un momento che lasciava presagire un futuro prospero, sulla scia di un clima di fiducia e di ottimismo generato dall’avanzare, in Occidente, delle democrazie liberali dopo il 1991. Era il giorno del più grande allargamento dell’Unione europea, ai 15 Stati membri di allora si unirono Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia. La maggior parte – e anche altri due che hanno aderito in seguito, Romania e la Bulgaria – avevano composto quel blocco orientale posto sotto l’influenza sovietica. Nel 2013 anche la Croazia aveva aderito all’Ue, diventando il 28° Stato membro, fino all’uscita della Gran Bretagna nel gennaio 2020. Oggi ci sono nove Paesi, principalmente balcanici e dell’est Europa, che vorrebbero entrare nell’Unione, Albania, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia, Turchia, e ultimi, in ordine di tempo, Moldavia, Ucraina, Kosovo, Bosnia Erzegovina e Georgia. La guerra sul fianco orientale dell’Europa, scoppiata con l’invasione russa dell’Ucraina, ha riportato l’attenzione sui temi dell’allargamento e della sicurezza. Del ventesimo anniversario della maxi espansione, dei risultati conseguiti e dei passi falsi, delle prospettive future, Interris.it ne ha parlato con Matteo Bonomi, responsabile di ricerca nel programma Ue, Politiche e Istituzioni dell’Istituto Affari Internazionali (Iai).

Cosa ha significato quel momento?

“E’ stato il risultato di una delle principali risposte dell’Occidente, Unione europea in particolare, alle grandi sfide geopolitiche della fine della Guerra fredda: riunificare l’Europa dell’est con quella occidentale. Nella ‘divisione dei compiti’ con Stati Uniti e Nato, all’Ue spettava l’ancoraggio delle riforme e delle transizioni politiche ed economiche di quei Paesi del blocco orientale. Quest’esperienza è stata un successo e, se pure alcuni aspetti furono celebrati in maniera fin troppo euforica e certi risultati sono stati probabilmente ridimensionati nel tempo, il bilancio è fortemente positivo”.

Ci può spiegare cosa intende?

“Un indubbio successo sono stati la progressiva ’espansione e l’allargamento del mercato unico ai Paesi dell’Europa centro-orientale, che ha permesso l’innalzamento del tenore di vita, e i fondi strutturali e di coesione che hanno permesso di sostenere per anni gli investimenti pubblici nei Paesi di nuovo ingresso. Più luci e ombre ci sono invece sul processo politico. E’ stato fondamentale per stabilizzare negli Stati membri il passaggio al sistema elettorale multipartitico e agli standard democratici di rispetto delle minoranze e dello stato di diritto, ma forse per eccessivo ottimismo erano considerate conquiste irreversibili e non sono stati pensati sufficienti strumenti di garanzia”.

Quali sono i punti di forza dell’Ue?

“Il suo cuore è il mercato unico. Le soluzioni e i meccanismi di solidarietà di vent’anni fa forse vanno aggiornati, perché il mondo di oggi è più competitivo, ma hanno consentito l’integrazione, la maggior efficienza e la competitività delle nostre filiere industriali organizzate su scala europea, e anche la redistribuzione della ricchezza. Quegli strumenti sono serviti per rispondere ai cambiamenti della globalizzazione, dove oggi la grande sfida è rappresentata dalla competitività di Cina e India”.

Oggi abbiamo l’Europa della solidarietà o dopo la pandemia ritorna l’Europa del rigore?

“Ci sono pulsioni che spingono ciascuna in una direzione. E’ da vedere se e come quelle misure pensate ad hoc diventeranno di supporto permanente. Il budget europeo, formato da contributi nazionali e da fondi propri europei, mi sembra molto ridotto rispetto ai compiti e alle ambizioni che deve avere l’Unione. Poi c’è da capire con quali risorse finanziare questo bilancio”.

Ci sono sulla porta nove Paesi, molti dei quali dell’Europa centro-orientale e dell’est, che aspettano di entrare nell’Unione. Quali sarebbero gli obiettivi di un ulteriore allargamento?

“Il principale è stabilizzare i Paesi limitrofi all’Ue, ancorarli alla democrazia e legarli a processi di sviluppo economico, per rendere l’Unione più forte e attrezzata per il futuro. Ovviamente è un percorso complesso e complicato, non automatico, perché prevede sia riforme interne all’Ue che ai Paesi candidati. I sei dei Balcani occidentali aspettano da anni e alla luce dell’attuale situazione geopolitica, con l’invasione del 24 febbraio 2022, si è rivitalizzata anche per loro la volontà di far parte dell’Ue. Al tempo stesso, in risposta a quell’evento, l’Ue ha esteso la prospettiva di accesso anche ai Paesi dell’ex spazio sovietico come Ucraina, Georgia e Moldova. I tempi e modi sono incerti, ma è importante impostare le politiche di allargamento e le riforme interne fin da subito, per renderle sostenibili ed efficaci”.

I Balcani sono segnati dalle tensioni tra Serbia e Kosovo. Questo può interferire sul processo di adesione di Pristina?

“E’ un grande ostacolo per l’integrazione di entrambi i Paesi, fin quando non si troverà una soluzione condivisa sarà difficile completarlo. Si spera che la prospettiva di ingresso nell’Ue funga da incentivo per aiutare Belgrado e Pristina a risolvere il problema della loro convivenza, dopo la fine della guerra balcanica del 1998-1999. L’indipendenza del Kosovo è un dato acquisito di fatto, ma alcuni Paesi, come appunto la Serbia, non lo riconoscono”.

Prima citava l’Ucraina: diventerà mai uno Stato membro dell’Ue?

“Sì, anche se non attraverso una procedura veloce come ha richiesto il presidente Volodymyr Zelensky. Ci vorranno tempo e un approccio graduale all’integrazione dei mercati europei, fino a far raggiungere a Kiev una membership alla pari con gli Stati membri”.

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