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Efficienza energetica degli immobili: l’ambizioso percorso che si vuole tracciare

A metà gennaio è stato approvato dal Parlamento europeo il testo definitivo della nuova direttiva relativa all’efficienza energetica degli immobili (tecnicamente Energy performance of building directive, Epbd) con l’obbiettivo di arrivare al 2050 con un parco immobili a zero emissioni o, perlomeno, a emissioni tendenti a zero.

Il percorso che si vuol tracciare è molto ambizioso, prevedendo che già tra quatto anni, nel 2028, che gli edifici pubblici di nuova costruzione siano a zero emissioni, per arrivare al traguardo del 2050 con il passaggio intermedio dello stop ai combustibili fossili previsto per il 2040.

La domanda fondamentale, però, è “tutto questo è possibile o, almeno, sostenibile?”.
Possibile, in effetti, lo è tutto, dipende dalle risorse che si sia disposti a utilizzare per raggiungere il fine che ci si sia preposti ma è la sostenibilità del tutto che diventa la vera incognita.

Lo stato dell’arte nel continente non è certamente favorevole a questa impostazione: in tutta Europa l’80% degli edifici è precedente al 2000 e il 75% ha una scarsissima prestazione energetica dovuta soprattutto ai riscaldamenti che impiegano circa l’80% dell’energia consumata dalle famiglie che, a sua volta, rappresenta 42% dell’energia consumata in Europa (dati 2021).

Volendo seguire un piano che preveda l’abbattimento del 16% dei consumi entro il 2030 e del 26% entro il 2033 occorrerebbero ingenti investimenti che qualcuno, ovviamente, dovrà pagare perché, come si suol dire, non esistono pasti gratis e siamo sicuri che possano essere sostenuti dalle famiglie anche prevedendo forti incentivi da parte degli Stati membri? Anche gli incentivi, poi, non sono dei “regali”, nonostante un certo ex Presidente del Consiglio italiano amasse usare la parola “gratis” per descriverli, poiché vengono dalle imposte pagate da cittadini e aziende e questo va considerato perché un piano simile andrebbe a ridurre pesantemente i redditi continentali e, pure, penalizzerebbe i patrimoni esistenti, per la perdita di valore degli immobili più vecchi.

Inoltre, a lato di tutto questo non esiste un vero piano energetico sostenibile ma solo un progetto completamente ideologico che preveda la decarbonizzazione e il passaggio a un mix che preveda la componente maggiore composta dalle cosiddette energie rinnovabili.
Ora diciamo chiaramente che la ratio di fondo è ampiamente condivisibile, la necessità di raggiungere un sistema economico, detto in senso lato, ecosostenibile deve essere l’obiettivo di tutti perché su questo pianeta, semplicemente, ci viviamo tutti e la tutela dell’ambiente deve essere patrimonio di ogni essere umano ma è evidente che il passaggio a una struttura, diciamo, ecologica della società umana deve avvenire per passaggi sostenibili e non attraverso sogni e illusioni.

Negli ultimi anni è avvenuta una sorta di ubriacatura elettrica, nel senso che è stata fatta passare l’idea che l’elettricità sia la fonte energetica pulita che potrebbe essere la soluzione a ogni allarme ambientale. Di qui il focus su trazione elettrica, sul riscaldamento via pompa di calore alimentata elettricamente, sull’eliminazione di caldaie a gas e altri generatori energetici privati a base di idrocarburi dimenticando che l’elettricità non sia una fonte energetica ma un vettore energetico che deve essere prodotto e non è possibile affidarsi meramente alle fonti rinnovabili, comunemente intese oggi, per la produzione.

Il segmento rinnovabile più grande, infatti, è dato dall’idroelettrico che rappresenta il 38% di tutta la produzione mondiale che non è, esattamente, incrementabile per via di ovvie limitazioni fisiche alla creazione di nuovi invasi in quota per poter sfruttare l’energia gravitazionale, restano, quindi, principalmente eolico e solare che, però, anche ipotizzando una maggiore efficienza futura per produrre l’elettricità necessaria ad alimentare mobilità, climatizzazione e usi domestici e industriali degli idrocarburi (vedi anche solo la cucina) dovrebbero coprire una percentuale non banale del continente e, punto non banale, parte della produzione dovrebbe essere stoccata tramite accumulatori per gestire i momenti di picco notturni o in periodi di bonaccia.

Forse l’ubriacatura odierna data dalla pubblicità, anche eccessiva, delle auto EV e post superbonus ha fatto dimenticare che gli accumulatori, da un lato, costino cifre importanti e abbiano una durata abbastanza contenuta indicata dai cicli di ricarica prima che la loro efficienza inizi a calare anche significativa e dall’altro abbiano un “costo ambientale” enorme dovuto sia all’estrazione dei materiali necessari alla loro realizzazione sia alla produzione tout court sia, infine, allo smaltimento.

La grande differenza tra l’uso degli idrocarburi e il passaggio a un sistema basato quasi esclusivamente sull’elettricità è che i primi permettano una produzione di energia al momento mentre la seconda necessita una produzione continua con l’efficienza, nettamente maggiore in realtà rispetto all’uso di gas e derivati del petrolio, che viene abbattuta dalle dispersioni cumulate in fase di produzione, trasporto, dispacciamento, eventuale accumulo e utilizzo.

Senza, poi, un serio progetto di ritorno alla produzione energetica attraverso le centrali nucleari, seppur non escluso dai programmi europei, non sarà possibile, poi, eliminare definitivamente l’uso di combustibili fossili seppur in misura ridotta (forse) rispetto a oggi.

In questo scenario si dipanerebbe il nuovo impianto normativo sulle “case green” che, come si diceva sopra, non ha fatto i conti con la realtà poiché andrebbe a impattare, esattamente come l’addio ai motori endotermici previsto per il 2035, no su un solo settore ma su tutto il sistema europeo.

C’è, poi, il lato del patrimonio immobiliare già esistente che, come già si accennava, necessiterà di sostanziosi interventi di “attualizzazione” che peseranno, come sempre, sulle tasche dei cittadini che potrebbero vedere dei pesanti contraccolpi dal lato patrimoniale perché, comunque la si rigiri questa “rivoluzione”, peserà completamente sulle loro tasche, sia direttamente sia indirettamente attraverso la fiscalità per finanziare gli incentivi.

Di fatto, ci troviamo di fronte alla solita deriva dirigista a cui, spesso, ci ha abituato Bruxelles dimenticando che, nonostante quanto riporti una certa vulgata, il mercato si sia sempre indirizzato verso soluzioni più efficienti e sostenibili, come già avviene continuamente con l’evoluzione tecnologica e la sua fruizione dagli esseri umani, dalle tecniche di costruzione degli immobili ai serramenti, agli impianti energetici e via discorrendo.

L’unica variabile su cui si potrebbe intervenire è il tempo necessario che però necessiterebbe di un’azione indiretta attraverso sgravi fiscali o detassazione su prodotti e lavori e non tramite incentivi e imposizioni che, invece, potrebbero non avere alcun vero vantaggio concentrandosi su una soluzione ipotizzata oggi ottimale ma che potrebbe diventare obsoleta anche solo tra sei mesi, a seguito di un’innovazione cosiddetta di rottura che potrebbe rivoluzionare tutto lo scenario. Tutto questo, però, rientra nella capacità di “guardare oltre”, tipica di innovatori e di statisti ma che evidentemente manca in seno alle istituzioni europee.

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