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Frane e alluvioni: ecco quanto il territorio italiano è a rischio

L'intervista di Interris.it all'ingegnere Daniele Spizzichino di Ispra che parla dei fattori che rendono il nostro Paese a rischio di frane e alluvioni

L’Italia è un Paese che da sempre ha dimostrato essere a rischio idrogeologico. Le cause vanno ricercate nel terreno che la compone e nel corso degli anni altri fattori hanno aggravato una situazione già di per sé critica. Tra questi il cambiamento climatico con i suoi effetti sempre più distruttivi e altri elementi esterni che non tutelano la natura e l’ambiente in cui viviamo. 

Interris.it ne ha parlato con l’ingegnere Daniele Spizzichino, di Ispra (Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale), che in modo molto chiaro ha spiegato cosa rende l’Italia una terra a rischio elevato e quali sono gli elementi che hanno acuito questa delicata situazione.

Ingegnere Spizzichino, che cosa rende l’Italia uno dei Paesi più pericolosi dal punto di vista idrogeologico?

“Si tratta di un territorio storicamente e naturalmente predisposto a fenomeni di dissesto. A tal proposito noi definiamo l’Italia un Paese geologicamente giovane e tettonicamente attivo, il che significa che per la sua conformazione morfologica è naturalmente esposto ad eventi di tipo franoso e idraulico. Basti pensare che la nostra penisola ha una superficie di oltre 300mila km2 e il 18,4% è mappato nelle classi di maggiore rischio per frane e alluvioni. A questa condizione si aggiungono poi dei fattori peggiorativi come quelli del cambiamento climatico, che negli ultimi anni ha provocato, con l’aumento sia per intensità che per frequenza degli eventi estremi, numerosi danni”.

Tra le cause c’è anche l’abusivismo edilizio?

“A partire dal secondo dopo guerra, a seguito del boom edilizio si è toccato l’apice della crescita. Negli anni ’50 e ’60 sono state infatti realizzate infrastrutture e centri urbani non sempre in modo corretto perché mancavano la consapevolezza e gli strumenti attuali per comprendere il rischio geologico. Oggi, in parte paghiamo ancora gli sbagli fatti in quel decennio che ci rende molto vulnerabili davanti a un fattore di rischio che già di partenza fa parte del territorio in cui viviamo”.

Negli anni vi sono stati molti condoni. Si è tenuto conto del pericolo?

“Questo è un grande problema perché una sanatoria e un condono non abbassa alcun rischio, anzi lo alza perché vengono sanate, ovvero legalizzate, delle infrastrutture e delle abitazioni che si trovano in zone dal punto di vista idraulico e geologico non sicure. Il cuore della questione è che ogni tipo di sanatoria nella aree a pericolosità geologica e idraulica dovrebbe essere sempre e severamente vietata”.

Al giorno d’oggi quando si costruisce c’è più attenzione?

“Dal 2000 in poi le cose sono fortunatamente molto cambiate, le autorità di bacino, oggi distretti idrografici, hanno prodotto i piani di assete idrogeologico, ovvero le mappe della pericolosità e del rischio idrogeologico. Si tratta di un documento molto importante perché mette nero su bianco le aree considerate a rischio elevato e su cui grava un vincolo di inedificabilità. Questo rappresenta un passo importante, ma ad oggi ancora ci troviamo a convivere con la pesante eredità del passato che vede non solo abitazioni, ma anche infrastrutture, strade e ferrovie costruite in aree a forte rischio idrogeologico”.

Che legame c’è tra alluvioni e frane?

“Le frane possono essere di diverso tipo e alcune tipologie rispondono a quelli che vengono definiti i meccanismi di innesco, tra i quali ci sono anche le precipitazioni. I fenomeni meteorici brevi e intensi provocano le frane più distruttive come i crolli di roccia e le colate rapide di detrito. Le piogge prolungate e meno intense invece, hanno un impatto spesso sul ricarico della falda e innescano fenomeni più profondi, ma con un’evoluzione molto più lenta e dunque compatibili con la loro gestione. 

Come si possono mitigare questi rischi? 

“Ci sono due approcci principali. Il primo è quello strutturale e si riferisce all’utilizzo di interventi di ingegneria classica che riducono l’instabilità o la pericolosità del fenomeno (opere di protezione e contenimento). Il secondo è quello non strutturale e riguarda i sistemi di monitoraggio, di allerta meteo e l’educazione dei singoli cittadini che devono avere consapevolezza nei comportamenti e nei protocolli da seguire in fase emergenziale. Solo l’effetto combinato di queste due misure ci permetterà di fronteggiare e mitigare in tempi ragionevoli il rischio”.

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