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John Fitzgerald Kennedy: 60 anni fa il suo assassinio

22 novembre 1963. Un ragazzino italiano di 13 anni, già affamato di notizie, ma anche di Carosello, accende la tv all’ora del telegiornale: c’è un solo canale, niente scelta. Ma in tv c’è il monoscopio e musica classica: il ragazzino, sorpreso, chiede spiegazioni ai genitori, che non sanno che dire. Poi, tra un brano e l’altro, la voce di un’annunciatrice spiega: “Le trasmissioni sono momentaneamente sospese in attesa di un’edizione straordinaria del telegiornale per l’uccisione a Dallas del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy”.

Il ragazzino grida la notizia ai genitori e scoppia a piangere: è morto un suo mito, un suo eroe, glielo hanno ammazzato. JFK, il presidente più giovane mai eletto nella storia dell’Unione – entrò alla Casa Bianca che non aveva ancora 44 anni -, l’uomo della Baia dei Porci, ma anche l’uomo della corsa alla Luna, del braccio di ferro – vinto – con i sovietici per i missili a Cuba: quello che, davanti al Muro di Berlino da poco eretto, diceva “Anch’io sono un berlinese”; e che ai ragazzini della mia età nel suo Paese insegnava: “Non chiedetevi che cosa il vostro Paese possa fare per voi, ma che cosa voi possiate fare per il vostro Paese”.

Il suo assassinio trovava un’America divisa dalla sua scelta di porre fine alla segregazione razziale: una scelta che il suo successore Lyndon B. Johnson portò avanti e che cambiò per sempre, almeno fino a oggi, la geografia politica degli Stati Uniti, mutando il Sud da democratico a repubblicano. Primo cattolico alla Casa Bianca – il secondo è l’attuale presidente, Joe Biden -, Kennedy aveva fascino e carisma e, al suo fianco, una moglie perfetta nel ruolo di “first lady”, Jacqueline Bouvier.

Oggi, 60 anni dopo la sua morte, l’Unione è più polarizzata e molto più divisa d’allora. Un Kennedy corre di nuovo per la presidenza; ma la candidatura di Robert F. Kennedy Jr, omonimo del padre, fratello di JFK e ministro della Giustizia nella sua Amministrazione, ucciso tentando di conquistare la Casa Bianca nel giugno 1968, nelle cucine di un hotel di Los Angeles, mette scompiglio nel clan di Camelot – come la dinastia dei Kennedy è chiamata – e nel Paese. Per le sue teorie ritenute cospirazioniste, RFK Jr. è stato messo all’indice da cugini e nipoti, anche per la scelta di sfidare da indipendente Biden, un amico di famiglia. Nella sfida che s’annuncia il 5 novembre 2024 tra l’attuale presidente e Donald Trump, i suoi seguaci (il 13% dell’elettorato, secondo recenti sondaggi) potrebbero fare la differenza, a vantaggio del magnate. E’ una prospettiva inaccettabile, per una famiglia che per decenni ha sempre fatto politica e che è sempre stata democratica: oggi, Caroline, figlia di JFK, è ambasciatrice in Australia; e il bisnipote Joe III è inviato speciale in Irlanda.

Insieme ad Alessandra Baldini, a lungo corrispondente e ora collaboratrice dell’ANSA dagli Usa, cronista attenta dallo stile a tratti graffiante, gettiamo uno sguardo sulla memoria di JFK, il cui tasso di approvazione postumo, secondo la Gallup, è salito al 90%, il più alto di un ex presidente. L’anniversario – ci dice Alessandra – è listato a lutto, tra ricordi, apprezzamenti e polemiche mai sopite di chi alle pallottole solitarie di Lee Harvey Oswald, l’ex marine assassino, un tiratore scelto, non ha mai creduto. Ad alimentarle c’è su Paramount+ il documentario “What the Doctors Saw”: parlano sette medici che erano al Parkland Hospital dove Kennedy venne ricoverato e, poco dopo, morì. Alcuni dicono di avere visto una ferita al collo che cambierebbe la tesi dell’unico cecchino avvalorata dalla Commissione Warren, il cui rapporto resta la verità ufficiale su quanto accadde. Elementi di mistero ci sono: uno solo cecchino o due, un “lupo solitario” o dei mandanti – la mafia?, i cubani? -, l’incredibile approssimazione della polizia di Dallas, che il giorno dopo si fece ammazzare Oswald sotto i suoi occhi da uno che disse di volere vendicare il presidente, Jack Ruby. Per i cospirazionisti, nulla di meglio che rivedere JFK, il film di Oliver Stone, che recepisce e alimenta tutti i sospetti. Biden non ha certo aiutato a dissipare i dubbi, quando in giugno ha rinviato per motivi di sicurezza la divulgazione di migliaia di file, alimentando le illazioni sul delitto più indagato del secolo.

Quel 22 novembre 1963, a Dallas, il giovane presidente agonizzò nelle braccia della moglie Jackie, il vestito rosa macchiato di sangue: come le bombe di Pearl Harbor e il crollo delle Torri Gemelle, l’assassinio resta nella memoria globale come uno di quei rari momenti in cui chi era vivo all’epoca ricorda esattamente dov’era e cosa stava facendo. La mia testimonianza di ragazzino lo conferma.

A rinfrescare la memoria degli altri, sono state allestite mostre come “Two Days in Texas”, ospitata al Sixth Floor Museum di Dealey Plaza a Dallas, il luogo dell’agguato. Il museo texano ha pure collaborato con il National Geographic per una docuserie che recupera voci dimenticate, come quella di Peggy Simpson, l’unica donna reporter della Associated Press in Texas, testimone oculare dell’assassinio di Oswald che non era mai apparsa in video.

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