I più anziani ricorderanno sicuramente quando, nel 1968, nelle sale cinematografiche uscì la pellicola “Il medico della mutua”. Il dottor Guido Tersilli era un giovane neolaureato in medicina, assetato di guadagni, che decise di diventare medico di base, spinto dal fatto che il guadagno era proporzionale al numero di mutuati. Ad oggi però, Guido Tersilli, interpretato magistralmente da Alberto Sordi, non è più il mito dei giovani laureati in medicina. E la sicurezza economica non rappresenta più un elemento che li tiene legati a questa delicatissima professione.
La fuga
Negli ultimi anni si sta verificando un fenomeno che fino qualche tempo fa non conoscevamo. Molti medici, di età compresa tra i 30 e i 40 anni, dopo aver aperto il loro studio di medicina generale decidono di lasciare l’attività. Inoltre, questo problema è aggravato dal numero crescente di medici in età pensionabile. Nel giro di qualche anno dunque il gap tra uscenti ed entranti potrebbe essere molto elevato e la possibilità che un italiano su tre rimanga senza medico di famiglia non è poi così remota.
L’intervista
Questa situazione spaventa molto e Interris.it ne ha parlato con il dottor Alessandro Dabbene, vicesegretario nazionale di Fimmg (Federazione Nazionale Medici di Famiglia).
Dottor Dabbene, stiamo forse assistendo alla mancanza di una vocazione alla medicina generale?
“Io non credo perché si tratta di una professione molto bella. Secondo me capita che un medico, dopo aver preso l’incarico, molto spesso si trova di fronte a due problematiche che non hanno nulla a che fare con l’attività clinica. La prima è la conflittualità con gli assistiti, accentuata durante la pandemia e l’altra invece, l’incremento di pratiche burocratiche. Queste ultime attività comprendono la redazione di piani terapeutici e di modulistica che è resa necessaria per inviare i pazienti a servizi di vario tipo. Inoltre, c’è tutta la parte di ricezione di richieste da parte per esempio di specialisti o di altro personale sanitario che va valutata ed eventualmente modulata, e per farlo viene sottratto molto tempo alla cura”.
Questi giovani medici dove vanno?
“Molti di loro si riversano nella libera professione in strutture private, altri tornano a fare la guardia medica, altri ancora, visto l’incremento delle borse di studio universitarie, preferiscono risedersi sui banchi e conseguire una nuova specializzazione. Una piccola parte di loro invece, decide di trasferirsi in un altro Paese dell’Europa dove i titoli acquisti in Italia sono validi e possono essere usati”.
Questo fenomeno si lega a quello dei pensionamenti?
“In questo momento siamo nel picco di quella che noi del settore chiamiamo la ‘gobba pensionistica’. Se naturalmente poi ci aggiungiamo che molti giovani medici decidono, per i motivi che ho sopra elencato, di non intraprendere la medicina generale di base, ecco che si creano dei vuoti. Purtroppo ci sono già realtà come alcune zone nel biellese, nel cuneese e nel verbanese, in cui sono mancati i medici di base per qualche mese. E le Asl di riferimento, per tamponare la situazione, sono dovute ricorrere a sistemi di emergenza”.
Questo fenomeno favorirà la sanità privata?
“Solo in parte perché la medicina di base resta ancora l’ultimo baluardo in cui il privato non riesce ad entrare con entrambi i piedi. Chiunque infatti, può andare a fare una visita generica da un medico privato. Ma questo collega non potrà mai prescrivere un farmaco o un esame mutuabile. Il privato rimane, invece, una valida alternativa alla visita specialista in quando il paziente non trovando sempre una risposta in tempi ragionevoli con il sistema sanitario nazionale, ricorrere a una prestazione professionale privata”.
Come si ferma questo fenomeno?
“Innanzitutto occorre recuperare il valore di questa professione che va supportata con la riorganizzazione della medicina generale ed incentivando sempre di più la medicina di gruppo. Inoltre, io mi auguro che il post pandemia riporti un clima sereno nel rapporto medico-paziente e che spinga i medici di base a continuare ad amare la loro professione”.