La Fondazione Benedetta D’Intino nasce nel 1992 a Milano dal sogno di Cristina Mondadori, in ricordo della nipote Benedetta, scomparsa prematuramente a soli 15 mesi a causa di una cardiopatia congenita. Nel centro anonimo, nato due anni dopo, un’equipe multidisciplinare di 20 specialisti segue con massima dedizione i bambini affetti da disagio psicologico e da gravi disabilità comunicative. Lo scopo principale è quello di migliorare la loro vita e prendersi cura delle loro famiglie.
La Fondatrice della Fondazione
Cristina Mondadori era la figlia minore dell’editore Arnoldo. Il destino l’avrebbe immaginata a lavorare nell’azienda del padre, ma lei scelse una vita diversa e, dopo una giovinezza trascorsa accanto ai maggiori esponenti della letteratura del novecento, decise di diventare prima medico cardiologo, poi psicoterapeuta infantile. In particolare sentiva che doveva dedicare tutto il suo sapere e le sue energie a quei bambini che, come lei stessa definiva erano stati “maltrattati dalla vita”.
Asta di beneficenza
La Fondazione Benedetta D’Intino ha organizzato una raccolta fondi che culminerà il 26 ottobre in occasione dell’evento “Incontri che cambiano la vita” che avrà luogo al MEET di Milano. Tra le opere aggiudicabili ci sono suppellettili di design, perle preziose, opere d’arte da collezione e scatti d’autore. L’ingresso all’asta sarà su invito e la somma raccolta verrà usata per continuare a finanziare il Centro Benedetta D’Intino e aiutare gli oltre 300 minori a cui ogni anno vengono garantiti gratuitamente servizi di Psicoterapia e di Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA).
L’intervista
Dopo la morte di Cristina Mondadori, la Fondazione è passata nelle mani del figlio Mattia Formenton che porta avanti l’eredità della madre, trasportato dalla sua stessa passione. Interris.it lo ha intervistato per parlare di come i bambini che non riescono a comunicare verbalmente vengono aiutati a trasmettere i loro bisogni ed emozioni.
Presidente, che cosa è la Comunicazione Aumentativa Alternativa?
“Si tratta di una pratica clinica che tramite delle tecniche, delle strategie e delle tecnologie mirate e personalizzate cerca di mettere in contatto i bambini con il mondo che li circonda. Questo metodo ha origini lontane e già negli anni 60 e ’70 veniva praticato nel Nord America per aiutare persone che avevano subito lesioni cerebrali importanti e che non erano più in grado di comunicare, tanto che fu impiegato anche con i reduci del Vietnam”.
Come si entra in contatto con questi bambini?
“Sono persone che hanno difficoltà ad usare i più comuni canali comunicativi, come il linguaggio orale e la scrittura, e spesso anche le modalità non verbali, come i gesti, lo sguardo, e la mimica. Laddove risulta possibile, possono usare le mani, ma nella maggior parte dei casi si tratta di bambini che hanno delle forti limitazioni motorie. Il percorso è personalizzato a seconda della condizione e in alcuni casi abbiamo sperimentato l’utilizzo di puntatori oculari che sono collegati a un computer. I bambini con il solo movimento degli occhi riescono ad esprimersi e ad instaurare una relazione comunicativa”.
Quali sono le patologie che possono portare a un deficit della comunicazione?
“Le condizioni di disabilità che richiedono interventi di CAA sono di origine congenita, o acquisita e possono essere forme evolutive, situazioni temporanee o permanenti. Tra le condizioni congenite, le più frequenti sono gli esiti di paralisi cerebrali infantili e le disabilità intellettive, per lo più attribuibili a malattie genetiche e metaboliche, a disturbi dello spettro autistico, ad encefalopatie degenerative, a gravi disprassie del linguaggio, ad atrofie muscolari spinali e ad miopatie”.
Le famiglie come imparano questo nuovo modo di comunicare?
“Uno dei primi obiettivi è proprio quello di coinvolgere in maniera attiva tutto il nucleo familiare. Per questo motivo il lavoro che noi facciamo con ogni bambino è personalizzato e i genitori partecipano attivamente alla seduta. In questo modo sarà loro possibile utilizzare nell’ambiente di vita le stesse tecniche apprese al centro, che per il bambino sono diventate la porta per entrare in contatto con il mondo circostante”.
La mancanza di comunicazione può avere effetti negativi a livello psicologico?
“Come tutte le persone anche questi bambini hanno qualcosa da dire, ma non lo riescono a fare. Questa limitazione fa emergere una sorta di frustrazione perché non c’è nulla di più brutto di non poter esprimere i propri pensieri e le proprie emozioni, qualunque esse siano. Per loro riuscire a comunicare significa mitigare alcune difficoltà, ricavarne benefici psicologici e oltrepassare un limite che fino a quel momento impediva loro di venire in contatto con l’altro”.
Presidente, la sua è una famiglia che ha fatto della comunicazione il proprio stemma. Cosa vuol dire mettersi a servizio di chi le parole non le può usare?
“È stata la sfida più grande e pazzesca che la vita ci potesse presentare. Io la vivo come una vera e propria missione perché comunicare è un diritto che deve essere garantito a tutti. Per questo motivo sento che il mio compito è quello di dare una voce a dei bambini che hanno tanto da dire e che se messi nelle condizioni di poterlo fare possono regalarci moltissime soddisfazioni”.