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Amazzonia a secco, a rischio la vita dei popoli indigeni

Nella regione del pianeta con le maggiori riserve d'acqua dolce, in mezzo milione rischia di restare a secco. Centinaia le comunità isolate perché non si riesce a navigare. Spenta una centrale

Il livello dei principali affluenti brasiliani del Rio delle Amazzoni – inclusi i grandi Solimões e Rio Negro – è calato in modo allarmante, al ritmo di trenta centimetri al giorno. È il risultato del Niño, dell’aumento della temperatura del Pacifico: un “danno collaterale” del riscaldamento globale. Riportiamo l’articolo di Lucia Capuzzi per Avvenire.

Amazzonia a secco, a rischio la vita dei popoli indigeni

Capitale delle sillabe d’acqua. Così, in un celebre verso, Pablo Neruda definisce il Rio delle Amazzoni. Il suo scorrere maestoso è il cuore pulsante dell’organismo Amazzonia, nel quale «i fiumi e i ruscelli sono come vene, e ogni forma di vita origina da essa», si legge in “Querida Amazônia”. Eppure, nelle ultime settimane, le vene amazzoniche appaiono prosciugate. Il livello dei principali affluenti sul territorio brasiliano – inclusi i grandi Solimões e Rio Negro, – è calato in modo allarmante, al ritmo di trenta centimetri al giorno.

Non si tratta della diminuzione fisiologica che accompagna la stagione secca, tra giugno e dicembre. È il risultato del Niño cioè dell’aumento della temperatura del Pacifico. Un “danno collaterale” del riscaldamento globale che, ancora una volta, si accanisce sui più fragili ovvero i popoli del fiume, in primis gli indigeni, la cui esistenza, economia, spostamenti dipendono dal suo fluire. Mezzo milione di abitanti della regione con le maggiori riserve d’acqua dolce del pianeta rischiano di restare a secco. Un crudele paradosso. Il quale svela il senso di quanto scrive papa Francesco in “Laudate Deum”: «Poniamo finalmente termine all’irresponsabile presa in giro che presenta la questione come solo ambientale, “verde”, romantica, spesso ridicolizzata per interessi economici. Ammettiamo finalmente che si tratta di un problema umano e sociale in senso ampio e a vari livelli».

Di nuovo, l’Amazzonia – indicata profeticamente dal Pontefice come banco di prova per la Chiesa e per il mondo – diviene cartina di tornasole dell’emergenza globale. La sua siccità è «storica». Non solo per le proporzioni, assolutamente inedite, come hanno detto gli esperti. Ma anche perché sintetizza in immagini iconiche il dramma di un’epoca e ci costringe a guardarle. All’inizio della settimana, i cadaveri di oltre 125 delfini rosa – i “botos”, creature di cui è impregnata la mitologia e la cosmovisione indigena – si sono ammassati sulle rive del lago Tefé, formato dal fiume Solimões. Ad ucciderli, secondo l’Istituto Mamirauá, è stata l’acqua diventata un brodo primordiale – sfiora i 40 gradi – in seguito al calo del livello. «E non sono solo i delfini. Non abbiamo più niente da pescare. Il fiume sta morendo e con lui moriremo anche noi», denuncia Adamor, nativo di Capanha. La sua comunità, come centinaia di altre, è isolata perché l’acqua è troppo bassa per navigare. Impossibile raggiungere le città più vicine e ricevere da queste gli approvvigionamenti vitali. Ieri a Manaus, la capitale dell’Amazzonia, dove si concentra la produzione industriale, i negozi sono rimasti vuoti nonostante le svendite. Inutile comprare dato che la mercanzia non può essere trasportata.

Con i fiumi in secca, inoltre, l’evaporazione si è drasticamente ridotta. Un’occasione ghiotta per quanti vogliono trasformare, con il fuoco, la foresta in una distesa di monocolture intensive. Nel mese di settembre, in base a dati ufficiali, sono stati registrati 6.991 incendi, una media di 233 al giorno. Il secondo dato peggiore dal 1998. Di fronte al dramma, il governo brasiliano – che considera la protezione dell’Amazzonia fondamentale per risultare credibile agli occhi della comunità internazionale – ha inviato nella regione una delegazione guidata dal vicepresidente Geraldo Alckim per un sopralluogo e ha stanziato l’equivalente di 26 milioni di euro per dragare i fiumi Solimões e Madeira e contrastare gli incendi. Solo nello Stato di Amazonas, quaranta dei 62 municipi sono in stato di emergenza, inclusa Manaus, e le forze armate distribuiscono pacchi alimentari. Gli altri sono in allerta. Le autorità, inoltre, hanno “spento” la maxi-centrale idroelettrica di Santo Antônio, nello Stato di Rondônia. E presto potrebbe toccare ai quattro impianti dell’Amapá e a quello dell’Acre.

Il minuscolo villaggio di Vila Arumã, dove vivevano appena mille persone, sulle sponde del fiume Purus, è stato letteralmente cancellato. La collina sabbiosa sul quale sorgeva fino alla settimana scorsa, si è sfaldata e le 45 casette sono state ingoiate, uccidendo due abitanti. I cedimenti di terra sono frequenti nella stagione secca, quando viene meno l’acqua che ne sostiene il peso. Mai però fino a inghiottire un’intera comunità.

Lo scenario oltretutto potrebbe ulteriormente peggiorare. Il Centro di monitoraggio e allerta per i disastri naturali del governo federale l’assenza di piogge rischia di prolungarsi almeno fino a gennaio. Con effetti in tutto il Continente. A cominciare dal lago Titicaca, sulle Ande a cavallo di Perù e Bolivia, già in fase critica. L’acqua è già calata di 60 centimetri: prima della fine dell’anno potrebbe oltrepassare il metro. «Nelle storie dei nostri antenati non viene descritto niente di simile – conclude Lidina, indigena Awa –. I nostri fiumi si sono ammalati di una nuova malattia».

Fonte: Avvenire

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