La stratificazione sociale è la diseguaglianza fra le classi di uno Stato (frutto di dinamiche e processi passati e attuali), poste a “strati” per cui si oscilla, dall’alto verso il basso, da posizioni di potere, ricchezza e privilegio, verso il fondo, tra povertà, invisibilità e solitudine. La destratificazione è, invece, la capacità, di una nazione, attraverso delle politiche sociali, di ridurre o eliminare le differenze di classe. A queste politiche, si accompagnano quelle di defamilizzazione, in cui il benessere dell’individuo dovrebbe essere indipendente dal sostegno della famiglia di origine e di demercificazione ossia buone condizioni di vita slegate dal mercato del lavoro e a favore, quindi, anche di chi non può lavorare.
Nonostante un processo di scolarizzazione di massa, avviato ormai da oltre mezzo secolo e nuove opportunità economiche, l’incidenza del livello sociale dei genitori risulta ancora predominante rispetto alle capacità del singolo (lo status di origine batte quello di destinazione, il merito non ha ancora la meglio sull’ereditarietà). Il peso dell’origine sociale è ancora molto elevato. A questo, a volte, si accompagnano dinamiche clientelari e nepotistiche che aiutano chi ha maggiori e migliori contatti a danno di chi si affida solo al merito personale.
Lo status di una persona, dunque, dipende da variabili individuali quali la famiglia in cui si è nati, l’ambiente circostante, la possibilità e la disponibilità a migliorare in termini di istruzione e da aspetti sociali per cui le istituzioni devono creare le condizioni universali per garantire benessere e accesso ai servizi. Nei decenni ‘60 e ‘70, in cui i Paesi europei avevano razionalizzato le politiche di redistribuzione delle risorse (dalle fasce più benestanti a quelle più bisognose), si cominciò a usare la locuzione “ascensore sociale”, intendendo (in genere nel significato di ascesa) un meccanismo di grado di favorire il miglioramento delle condizioni economiche eliminando le barriere e le fasce di appartenenza.
Dagli anni ‘80 in poi, complici politiche di tagli e di riduzione della spesa pubblica, la mobilità sociale è minimale e non consente una sana integrazione fra gli individui provenienti da situazioni molto diverse fra loro. La forbice tra ceto alto e basso è sempre più ampia e, invece di ridursi, proietta anche quella media verso il fondo. Lo dicono i numeri. Nel gennaio scorso, l’AGI (Agenzia Italia) riportava “In Italia, i super ricchi con patrimoni superiori ai 5 milioni di dollari (lo 0,134% degli italiani) erano titolari, a fine 2021, di un ammontare di ricchezza equivalente a quella posseduta dal 60% degli italiani più poveri. È quanto emerge dal nuovo rapporto Oxfam diffuso per l’apertura del World Economic Forum di Davos, ‘La diseguaglianza non conosce crisi’. Nel biennio pandemico ‘20-‘21 l’1% più ricco ha visto crescere il valore dei propri patrimoni di 26.000 miliardi di dollari, in termini reali, accaparrandosi il 63% dell’incremento complessivo della ricchezza netta globale (42.000 miliardi di dollari), quasi il doppio della quota (37%) andata al 99% più povero della popolazione mondiale”.
A livello sociologico, si distingue tra mobilità intergenerazionale (la condizione raggiunta dal singolo a partire da quella di origine, coinvolgendo due generazioni) e intragenerazionale (cambio di posizione che avviene nell’ambito di una sola generazione). Il “salto” di classe può avvenire in senso assoluto o relativo. Nel primo caso si considerano, a livello complessivo, gli individui che si muovono da una classe all’altra, nel secondo, si valutano le possibilità concesse ai membri delle singole classi. La mobilità poi, può essere orizzontale se si rimane nella stessa fascia o verticale se si cambia; in tal caso è ascendente se si assiste a un miglioramento delle condizioni, discendente se avviene verso il basso.
Il World Economic Forum ha stilato, riferito al 2020, il Global Social Mobility Index, in cui l’Italia è inserita al 34° posto fra 82 Paesi considerati. Nella Lettera Enciclica “Sollicitudo Rei Socialis” di San Giovanni Paolo II, pubblicata il 30 dicembre 1987, si legge “Purtroppo, sotto il profilo economico, i Paesi in via di sviluppo sono molti di più di quelli sviluppati: le moltitudini umane prive dei beni e dei servizi, offerti dallo sviluppo, sono assai più numerose di quelle che ne dispongono. Siamo, dunque, di fronte a un grave problema di diseguale distribuzione dei mezzi di sussistenza, destinati in origine a tutti gli uomini, e così pure dei benefici da essi derivanti”. Il quadro individuato dal Papa polacco è, purtroppo, ancora attuale.
Ercole Bonini ha scritto il volume “Quando funzionava l’ascensore sociale” (sottotitolo “Riattivarlo dipende da noi”), pubblicato da “Gruppo Albatros Il Filo” nel gennaio 2021. L’autore propone “Un messaggio di speranza, insegnando che la bellezza di meritarsi i propri successi non ha prezzo, che guardarsi indietro e vedere i gradini percorsi tra sacrifici, sudore e forza di volontà è ciò di cui hanno bisogno tutte le generazioni, vecchie e nuove”.
ilsole24ore, al link https://www.ilsole24ore.com/art/ascensore-sociale-bloccato-meno-4-italiani-10-si-aspettano-posizione-migliore-i-figli-AEhxFLSC, il 28 dicembre scorso ha offerto un quadro molto dettagliato. Fra i dati, si legge “Quanto alla collocazione nella ‘piramide sociale’ in base al reddito e alle condizioni di vita, il 27% del campione consultato ritiene di appartenere al ceto medio e solo il 6% alla upper class: di contro, ben il 66% degli interpellati ritiene di appartenere alla parte inferiore della scala sociale.[…] Solo il 55% degli intervistati ritiene che la propria posizione sia migliorata e per il 31% è rimasta uguale a un livello medio o alto; per il 38% è rimasta uguale a un livello basso o popolare; è invece peggiorata per il restante 26% (per il 19% peggiorata, per il 7% molto peggiorata). Ascensore sociale bloccato. Tra gli appartenenti al ceto medio, il 35% pensa che i figli potranno migliorare la posizione rispetto alla famiglia di provenienza; il 53% che la manterranno invariata; il 12% che scenderanno più in basso nella scala sociale. Nel ceto popolare, il 37% esprime aspettative di miglioramento per i figli e il 40% pensa che potranno mantenere la stessa posizione. Ma il 23% (quasi il doppio rispetto agli appartenenti al ceto medio) ritiene che la peggioreranno rispetto alla famiglia di provenienza”.
L’approccio liberista, tipico degli Usa e dei Paesi anglosassoni, propugna e vanta opportunità di mobilità che, tuttavia, rimangono di carattere puramente individuale e non collettivo, relegando tali economie a bassi tassi di destratificazione sociale. A livello intermedio si pone la relazione Stato-lavoro-famiglia dei Paesi continentali europei (Germania, Austria, Francia, Olanda), in cui il Welfare State è fortemente legato all’aspetto occupazionale, in gran parte del maschio capofamiglia; la destratificazione è media ma si assiste a una notevole segregazione di genere. All’opposto, si pongono i Paesi scandinavi (Svezia, Norvegia e Danimarca), in cui le politiche di welfare sono estese, generose ed egualitarie, azzerando la stratificazione. Gli Stati dell’Europa meridionale (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia), inizialmente legati a prospettive di tipo “continentale”, tendono, in particolare, a conflitti di classe tra ceti elevati e protetti e individui in cerca di affermazione. Le sfide del post modernismo poggiavano su una profonda ristrutturazione del mondo lavorativo: da esecutivo a immateriale, basato sui servizi, sulla conoscenza, sulla comunicazione e le capacità di risoluzione (problem solving). Tali aspetti, secondo alcuni, erano fondamentali per una riduzione delle diseguaglianze, con un forte potenziale di destratificazione sociale. I dati attuali non confermano queste rosee speranze.
Il primo piano da cui dovrebbe partire l’ascensore sociale è quello dell’istruzione, in grado di fornire un’offerta didattica di livello e, soprattutto, accessibile anche alle fasce più deboli. L’obiettivo è di evitare una “segmentazione didattica”, con il rischio che si perpetui una sorta di esclusività culturale e, invece, sia possibile una maggiore osmosi nel tramandarsi il livello di istruzione senza distinzione sociale. La formazione della scuola professionale, tecnica, secondaria e universitaria non ha un corrispettivo di opportunità lavorative collegate; per cui, si inizia un percorso di istruzione senza un minimo di prospettive e, quando felicemente concluso (al netto degli abbandoni), si fluttua nel mondo del lavoro, improvvisando e sperando. In Italia si assiste anche a una forte (25% del totale) incidenza della cosiddetta “over education”: i giovani laureati che non trovano occupazioni in linea con la propria formazione e sono costretti ad accettare lavori di qualità inferiore.
Un’accesa stratificazione sociale comporta anche un malumore e un’insoddisfazione che si presenta (come sottolineavano alcuni sociologi, tra cui Robert King Merton) sotto forma di risposta deviante da parte dei giovani. I ragazzi provenienti dalle fasce più svantaggiate, subiscono l’impossibilità di accedere ai mezzi che la società fornisce e si trovano penalizzati nel raggiungimento dei loro obiettivi; questo disagio si sfoga, quasi, sempre in un’ostilità sociale, di mancata integrazione, sino a un comportamento di natura criminale.Il culto del “self-made man” ha alimentato, da decenni, il “sogno americano” del far successo a tutti costi, cannibalizzando qualsiasi ostacolo pur di affermare se stessi.
Integrazione e inclusione sociale, uguaglianza, parità di diritti e opportunità, condivisione e collaborazione sono elementi di una destratificazione collettiva e non individuale. Una società che idolatra il singolo che si afferma tra milioni, non ha ragione di vantarsi per quella che spaccia come mobilità sociale poiché si tratta di egoismo, in cui l’affermazione di uno coincide con lo sfruttamento di tanti. Non si tratta, in tal caso, di ascensore sociale bensì, per rimanere in tema, di montacarichi che conducono gli ultimi (individui/merce) sottoterra, negli scantinati sociali.