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L’eredità della pandemia: ecco cosa ci lascia il Covid

Sono trascorsi 3 anni da quando, il 30 gennaio 2020, l’O.M.S. ha dichiarato “pubblica emergenza di interesse globale” la comparsa della pandemia da SARS-CoV-2 indicando la denominazione di COVID-19. In questo lasso di tempo abbiamo maturato un’esperienza che ci permette di tentare un bilancio, ponendoci alcune fondamentali domande. Come la pandemia è evoluta? Prendiamo in considerazione in prima istanza, la situazione epidemiologica nel mondo a 3 anni esatti dall’inizio della pandemia. I dati relativi ai casi e ai morti, segnalati dall’O.M.S. mediante il bollettino Covid-19 Weekly Epidemiological Update del 4 gennaio 2023, disegnano 2 curve entrambe con profili ondulati, ma distinte nettamente: la curva dei casi presenta fondamentalmente due picchi principali in corrispondenza di gennaio e di agosto 2022, la curva dei morti presenta invece un susseguirsi di vari picchi: nel marzo e nel dicembre 2020, quindi nel marzo e nel luglio 2021 e infine nel febbraio 2022 (susseguente al più rilevante picco dei casi di gennaio).

La maggiore consistenza casistica cumulativa è sostenuta dall’Europa [dati cumulativi dei casi 270 milioni (41%) e dei morti 2 milioni e 150.000 (32%)] e dalle Americhe [dati cumulativi dei casi 140 milioni (32%) e dei morti 2 milioni e 900.000 (43%)] con anche un rilevante apporto del Pacifico Occidentale (16% dei casi e 4% dei morti). L’Africa assomma l’1% dei casi e il 3% dei morti. Il Mediterraneo Orientale il 4% dei casi e il 5% dei morti e il Sud Est Asiatico il 9% dei casi e il 12% dei morti. Globalmente le cifre della pandemia sono imponenti: a tutto il 2022 circa 660 milioni di casi e 6 milioni e 700.000 di morti. Questi sommariamente esposti sono i dati ufficiali confermati, raccolti sulla base della definizione di caso, trasmessi dai vari paesi all’O.M.S. Per alcune Regioni l’affidabilità resta dubbia, per vari motivi e si ha ragione di ritenere che tali dati siano in generale largamente sottostimati. L’analisi di questi dati consente di formulare due considerazioni preliminari: la casistica più ampia si concentra in Europa e nelle Americhe ma la sua consistenza rispetto al dato globale è fortemente sbilanciata: in Europa prevale largamente la percentuale dei casi, nelle Americhe la percentuale dei morti. La pandemia non ha risparmiato alcun continente, alcun paese e ha raggiunto numeri imponenti di casi: il 10% dell’intera popolazione mondiale e una letalità stimata di circa l’1%; il rilievo e la notifica dei casi è largamente sottostimata, soprattutto nelle prime fasi della pandemia.

La sotto diagnosi e sotto notifica dell’infezione e della malattia rendono conto dell’apparente appiattimento della curva dei casi negli anni 2020 e 2021. La notifica delle morti, più affidabile, rende conto del profilo “a picchi” della relativa curva. Quali sono i fattori determinanti che ne sostengono l’evoluzione? Il Covid-19 è una pandemia sostenuta da un virus respiratorio altamente contagioso e virulento, il SARS-CoV-2; la trasmissione è principalmente per via aerea tramite droplets e per aereosol. La diffusione della pandemia è condizionata in primo luogo dai rapporti interumani, in particolare dagli affollamenti in ambienti chiusi: questi sono favoriti dal freddo e dalle precipitazioni atmosferiche e pertanto ci si aspetterebbe una stagionalità invernale fra i determinanti della diffusione. Tuttavia nei fatti, a differenza dell’influenza, non si riscontra una curva epidemica strettamente stagionale ma invece un andamento irregolare caratterizzato da picchi e avvallamenti in vari momenti nell’arco dell’anno, che riflettono sostanzialmente la varietà e la cronologia dei provvedimenti assunti per contrastarne la diffusione. Fra i provvedimenti non farmacologici si segnalano i dispositivi di protezione individuale, essenzialmente le mascherine facciali, la cui adozione è risultata di importanza fondamentale. Basti considerare che l’adozione generalizzata nel 2020 e nel 2021 ha praticamente azzerato di riflesso le epidemie di influenza stagionale. Evidentemente notevole importanza nel contrasto alla diffusione rivestono altresì l’adozione di classici interventi di sanità pubblica: i provvedimenti di distanziamento sociale e l’attuazione di strategie di sorveglianza e controllo. Il distanziamento sociale è stato prescritto con vari livelli di gradualità: dalla raccomandazione di mantenere almeno 1 metro di distanza nelle file (al supermercato, alle biglietterie etc.) e nelle sale d’aspetto o nei negozi, alla limitazione o proscrizione delle visite a pazienti ospedalizzati o ospiti di RSA, fino a veri lockdown ossia confinamenti domiciliari obbligati. Questi possono essere individuali (isolamento di soggetti infetti e quarantena dei “contatti”) o generalizzati (estesi a città, regioni o nazioni intere). Fra i provvedimenti “amministrativi” di sanità pubblica si segnalano la regolare registrazione e il monitoraggio dei casi (graduati da asintomatici a malati gravi) e dei decessi (distinguendo decessi “per” o “con” Covid, ossia che interessano pazienti ricoverati per altri motivi e riscontrati positivi ai tamponi molecolari per SARS-CoV-2). E soprattutto la tipizzazione genotipica per campione degli isolati virali a livello di popolazione o anche delle acque reflue di distretti urbani.

Queste attività rivestono la massima importanza: limitare la diffusione significa infatti anche limitare lo sviluppo di mutazioni genomiche e quindi di “varianti” virali, la cui emergenza condiziona lo sviluppo di successive “ondate” epidemiche. Ad esempio il picco dei casi più rilevanti, quello di gennaio 2022, cui fa riscontro una successiva cuspide di morti nel febbraio, è correlato all’emergenza della variante Omicron. Ma il provvedimento più importante di contrasto alla diffusione e alla mortalità, in questa come in tutte le epidemie, è la profilassi vaccinale. La ricerca farmacologica ci ha consegnato in tempi brevissimi vaccini (a m-RNA) anti SARS-CoV-2 estremamente efficaci e sicuri nel prevenire l’infezione e ancor più la malattia grave. Questi vaccini sono altresì adattabili alla necessità di essere aggiornati con l’emergere di nuove varianti, capaci di “evadere” l’efficacia degli anticorpi sia indotti dalla infezione naturale che dai vaccini.

L’evoluzione della pandemia, con andamento a picchi e avvallamenti, è condizionata dall’intensità e dalla più o meno ampia generalizzazione degli interventi di contrasto non farmacologici e di sanità pubblica nonché dalla estensione della “copertura” vaccinale. In assenza di questi, l’irruzione di un “nuovo” virus altamente diffusivo in una popolazione “vergine”, non protetta, inevitabilmente causerebbe un evento catastrofico continua la cui unica barriera naturale sarebbe lo sviluppo di “immunità di gregge”, ottenibile nel lungo periodo a costo di falcidiare proporzioni importanti della popolazione mondiale. In realtà il tempo necessario per l’ottenimento dell’immunità di gregge è funzione dell’indice di trasmissibilità (Ro) del virus in causa e questo, con l’avvento della variante Omicron e delle sue sottovarianti, è tale da collocare SARS-CoV-2 in cima alla scala di contagiosità di tutti i virus umani noti. Di questo ha dovuto prendere atto la Cina, dove tutto è iniziato, che a lungo ha attuato una strategia di “Covid-zero”, imponendo drastici lockdown a megalopoli di milioni di abitanti e pagando enormi prezzi economici e sociali. Con l’avvento di Omicron anche la Cina ha dovuto arrendersi e rivolgersi all’adozione sistematica delle mascherine facciali, a isolamenti e quarantene selettive e infine – soprattutto – all’impiego di vaccini impiegati in campagne di vaccinazione di massa.

Cosa abbiamo imparato sull’efficacia e i limiti dei mezzi impiegati per contrastarla? L’andamento di una curva epidemica, che disegna alternarsi di picchi e avvallamenti, legati all’interazione di determinanti facilitatori o deterrenti della trasmissione, significa di fatto che la pandemia dopo 3 anni è ancora viva come brace che arde sotto la cenere, pronta a riaccendersi. Esaminiamo l’interplay dei fattori determinanti. Dell’efficacia delle mascherine facciali si è detto: quando adottate generalmente hanno perfino azzerato di riflesso l’epidemia stagionale di influenza; quando ci si è limitati a prescriverne l’impiego in limitati settori (fondamentalmente gli Ospedali e le RSA) si è puntualmente riscontrato il ritorno in comunità dell’influenza stagionale (nel nostro paese responsabile annualmente di oltre 7 milioni di casi) e perfino la presenza inusuale di casi di infezioni da virus respiratorio sinciziale (VRS) negli adulti. Certamente efficace, ma ben più impegnativa e non scevra di inconvenienti, è l’adozione di mezzi di distanziamento sociale. Sotto il profilo epidemiologico, l’uomo è sostanzialmente l’unico ospite e vettore dell’infezione di SARS-CoV-2 per cui, ovviamente, in assenza di contatti umani l’epidemia è destinata a spegnersi. D’altra parte questi sistemi sono i più antichi e intuitivi, adottati nel contrasto di tutte le “pestilenze” che hanno costellato la storia dell’umanità nei secoli. Il Decamerone ad esempio è la narrazione di una brigata che riparava nel contado lasciando l’affollata Firenze con la peste. Ma nelle società attuali il danno che arreca il lockdown, più o meno generalizzato, è enorme. Fermare le attività industriali, commerciali e il terziario determina la paralisi di una società che con queste è intimamente interconnessa. Questo rischio va scongiurato in ogni modo e quindi tale provvedimento può essere adottato solo a fronte di evidenze scientifiche drammatiche e assenza di alternative efficaci.

Così abbiamo fatto in Italia, e di seguito in Europa, nella prima fase epidemica pagando un notevole prezzo economico e sociale; così non hanno fatto gli USA e le Americhe pagando in compenso gravi prezzi in termini di vite umane che tuttora segnano rispetto all’Europa un bilancio negativo nel rapporto fra casi e decessi.  Di fatto solo la presenza di un vaccino efficace, già disponibile sul finire del primo anno, ha acceso una luce, ha offerto una prospettiva di prevenzione potente e sostenibile. Ora dopo 2 anni di campagne vaccinali, ne abbiamo riscontrato appieno l’efficacia e i decisivi successi ma anche ne abbiamo registrato alcuni limiti. In primo luogo il progressivo svanire della protezione nei confronti soprattutto della trasmissione dell’infezione ma anche della malattia grave, che ha comportato la necessità di “richiami” successivi e di “dosi aggiuntive di rinforzo” (booster) mediamente dopo 4-6 mesi l’una dall’altra. Altro limite evidente è stato evidenziato dall’emergenza di varianti virali, per accumulo di mutazioni nel sito “bersaglio” (spike), che in qualche misura consentono al virus di evadere dalla neutralizzazione anticorpale. La plasticità dei vaccini a m-RNA consente peraltro agevolmente di creare vaccini modificati che incorporano le nuove proteine mutate cosicché già oggi disponiamo di vaccini bivalenti, costruiti sulla variante storica (Wuhan) abbinata alla variante aggiornata (Omicron). Ma ben più grave è un ulteriore ostacolo all’impiego dei vaccini: non scientifico ma ideologico e pertanto di maggiore gravità. Si è affermata nel mondo una aggressiva popolazione no-vax, costituitasi in opposizione alla “casta” della comunità scientifica, supposta dedita a ordire congiure planetarie. Contro questa supposta consorteria elitaria di congiurati, il cui fine sarebbe una sorta di orwelliano controllo dei comportamenti del genere umano, i no-vax si sono organizzati in schiere vocianti iscritte al “regno del bene”. Questa ideologia si è via via aggiornata ed evoluta in quella di no green-pass, quando è stato proposto questo strumento di verifica dello stato vaccinale. Poiché ci si è resi conto che era troppo difficile mantenere una posizione critica contro i vaccini (che somministrati in miliardi di dosi erano risultati efficaci e sicuri), la posizione è divenuta più sofisticata: “io non sono contro i vaccini, sono contro chi pretende di stabilirne l’obbligo per accedere a certi ambienti (es. luoghi di lavoro) e, tramite il green-pass, pretendere di verificare il possesso di questo requisito”.

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