Ho provato felicità e soddisfazione nel momento dell’arresto di Matteo Messina Denaro, latitante da trent’anni. Ho provato anche un senso di liberazione da un incubo che durava da parecchi anni e ho provato gratitudine per le forze di polizia e per i magistrati che hanno raggiunto dopo un lavoro intenso avuto questo risultato. Però il contrasto alla mafia ma anche alla mentalità che permette il diffondersi di questo virus che infetta la società siciliana, va fatto non solo con gli interventi della magistratura e delle forze di polizia, ma creando un cordone sanitario attorno all’organizzazione mafiosa, con una rivoluzione morale che denunzi l’idolatria del potere, del denaro e della violenza che stanno alla base della mafia.
La lotta alla mafia passa, anche se non si esaurisce, attraverso un rinnovato impegno educativo che porti ad un cambiamento della mentalità e dei comportamenti concreti, ad una profonda “conversione” personale e comunitaria, per usare un termine tradizionale proprio del linguaggio ecclesiale. I cristiani devono trovare motivazioni valide per contrastare questo fenomeno non solo a partire da generiche adesioni ad una generica difesa della legalità, ma a partire dalla loro originale esperienza di fede e dalla loro appartenenza ecclesiale. Spero che ora Matteo Messina Denaro possa collaborare anche se è molto difficile per un mafioso del suo calibro.
Come vescovo mi auguro che ci possa essere anche per lui una conversione, un cambiamento interiore come è avvenuto per gli assassini di don Pino Puglisi e del magistrato Rosario Livatino. Mi pare interessante che la cattura di Messina Denaro sia avvenuta mentre a Roma c’è un pellegrinaggio in alcune chiese e in alcuni luoghi istituzionali della camicia macchiata di sangue del Beato Rosario Livatino e mentre a Palermo si sono svolti con una grande partecipazione di popolo i funerali di fratel Biagio Conte, il “San Francesco di Palermo”, fondatore della Missione Speranza e Carità che ha assistito migliaia di poveri condividendo la loro vita.
I principali mafiosi che sono stati arrestati lo sono stati nel loro territorio perché protetti dall’omertà e dalla complicità di quella che è stata definita la “borghesia mafiosa”. Un capo mafia non abbandona il proprio territorio perché perderebbe il suo potere di controllo. La latitanza di Messina Denaro è stata possibile anche grazie alla omertà di quella che è stata definita la “zona grigia” di tante persone che continuano ad essere omertose per interesse o per paura e alla latitanza di una certa classe politica che non ha promosso uno sviluppo ordinato e non ha garantito i diritti al lavoro, all’istruzione alla salute.
La mafia è cambiata. Il fenomeno mafioso nei molteplici aspetti e nelle diverse nomenclature è ormai molto diffuso e va oltre i confini della Sicilia e dell’Italia stessa fino a radicarsi in territori una volta insospettabili e in tutti gli ambiti legati soprattutto al potere economico. Alla mafia stragista è subentrata quella imprenditoriale. I mafiosi non usano più il mitra ma il mouse. I grandi boss usano delle strategie diverse per continuare a controllare l’economia e condizionare la politica. Oltre il controllo del commercio della droga, l’usura e il racket controllano le attività economiche innovative, i centri commerciali, le energie alternative, gli appalti delle grandi opere, i centri scommesse e il gioco l’azzardo. In questi anni si è parlato meno di mafia nelle campagne elettorali e nei dibattiti della società civile. È un errore sottovalutare la presenza della mafia.
L’arresto di Messina Denaro è stato accolto con soddisfazione dalle vittime della mafia che si aspettano che vengano diradate le nebbie sugli assassini dei loro cari sui mandanti, sugli esecutori, sulle motivazioni delle stragi. Senza verità non ci può essere giustizia. Messina Denaro non era un corleonese anche se alleato con i Corleonesi Riina e Provenzano. Egli era un esponente di spicco della mafia del trapanese. Non bisogna commettere l’errore di pensare che arrestato Messina Denaro la mafia sia stata sconfitta come non è stata sconfitta dopo l’arresto e la morte dei grandi boss. La mafia è capace di rigenerarsi e già c’è qualcun altro cha ha preso il posto del boss arrestato. La Conferenza episcopale siciliana in una lettera collettiva già nel 1944, pur senza espliciti riferimenti alla mafia, dichiarava: «Per parte nostra dichiariamo colpiti di scomunica tutti quelli che si fanno rei di rapina o di omicidio ingiusto o volontario». Nel 1952 nel Concilio plenario della Sicilia questa scomunica fu estesa ai mandanti e ai collaboratori dei reati di mafia. Nel febbraio del 1973 i vescovi siciliani condannano con fermezza «il fenomeno perdurante della mafia che infetta alcune zone della nostra isola». Nel 1982 si scomunicava chi si fosse macchiato di crimini violenti che hanno come matrice la mafia e la nefasta mentalità che la muove e la facilita. La scomunica è stata ribadita il 13 aprile 1994. La Chiesa siciliana, per bocca dei suoi pastori, ha ribadito che la mafia è peccato e i mafiosi sono peccatori perché oppongono un rifiuto gravemente reiterato nei confronti di Dio e degli esseri umani, che sono a sua immagine e somiglianza.
A questo peccato si rendono solidali anche i fiancheggiatori dell’organizzazione mafiosa e coloro che ne coprono i misfatti con la connivenza e con il silenzio omertoso. Far parte della mafia si configura come un peccato gravissimo, che di fatto pone al di fuori della comunione ecclesiale chi lo compie. Per questo motivo noi vescovi abbiamo rimarcato l’incompatibilità tra la mafia e il Vangelo, consapevoli che il fenomeno mafioso interessa da vicino la Chiesa, il suo impegno catechetico, la sua prassi pastorale, la sua azione sociale. Non sarebbe comprensibile che un delitto di stampo mafioso nelle diocesi della Sicilia venga punito con la scomunica, mentre se commesso in un’altra regione possa restare indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica.