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Papa in Canada al Lago Sant’Anna per il tradizionale pellegrinaggio

Nel terzo giorno di viaggio apostolico in Canada, il Papa si è trasferito in auto al Lac Ste Anne dove – alle ore 17.00 (01.00 ora di Roma) – ha partecipato al Lac Ste Anne Pilgrimage e presieduto la Liturgia della Parola

Lasciato il St. Joseph Seminary, Papa Francesco nel terzo giorno di viaggio apostolico in Canada, si è trasferito in auto al Lac Ste Anne dove – alle ore 17.00 (01.00 ora di Roma) – ha partecipato al Lac Ste Anne Pilgrimage e presieduto la Liturgia della Parola.

E’ arrivato al Lac Ste. Anne, nell’Alberta centro-settentrionale, a circa 72 km a ovest di Edmonton, in auto per partecipare al tradizionale “Lac Ste. Anne Pilgrimage”, presiedendo la Liturgia della Parola. Il Lago Sant’Anna, ampio e poco profondo, è meta di un pellegrinaggio cattolico dalla fine del XIX secolo.

Al Suo arrivo, il Papa è stato accolto davanti alla chiesa parrocchiale dal Parroco, dal Sacerdote incaricato dei pellegrinaggi e da alcuni fedeli. Quindi si è diretto verso il lago a bordo di una golf car e è passato accanto alla statua di Sant’Anna accompagnato dal suono dei tamburi.

Giunto al lago, Papa Francesco ha fatto il segno della croce verso i quattro punti cardinali secondo l’usanza degli indigeni e ha benedetto l’acqua del lago. Sempre in golf car è arrivato fino al palco da dove – dopo le letture, il salmo responsoriale e la proclamazione del Vangelo – ha pronunciato l’omelia. Quindi, dopo la preghiera dei fedeli, la recita del Padre Nostro e la Benedizione finale, il Papa è risalito sulla papamobile e è tornato alla chiesa parrocchiale. Lungo il percorso ha benedetto la statua di Nostra Signora che scioglie i nodi.

Il pellegrinaggio al Lago di Dio

Migliaia di pellegrini, provenienti soprattutto dal Canada e dagli Stati Uniti nord-occidentali, giungono ogni anno in questo lago per bagnarsi nelle sue acque sante e pregare. Chiamato Wakamne, “Lago di Dio”, dai Nakota Sioux e “Lago dello Spirito” dal popolo Cree, fu nominato “Lac Ste. Anne” da padre Jean-Baptiste Thibault.

Il missionario fu il primo sacerdote a stabilire una missione cattolica permanente, nel 1842, in Alberta, in questo posto già ritenuto sacro da generazioni e noto agli indigeni come luogo di guarigione. La prima chiesa fu costruita nel 1844 e, nel 1852, padre Albert Lacombe e padre René Remas iniziarono il servizio degli Oblati di Maria Immacolata. Da allora i missionari hanno servito ininterrottamente la zona. Il primo pellegrinaggio annuale fu organizzato dagli Oblati nel luglio 1889 e vi parteciparono 400 persone. È poi continuato ogni anno, nella settimana del 26 luglio, festa di Sant’Anna, madre della Beata Vergine Maria e nonna di Gesù, venerata in molte comunità indigene canadesi, ed è diventato uno degli incontri spirituali più importanti per i pellegrini del Nord America e particolarmente caro alle popolazioni delle Prime Nazioni, che continuano a prendervi parte annualmente.

La chiesa, completamente distrutta da un incendio, nel 1928, è stata ricostruita nel 2009. La nuova struttura è stata ufficialmente benedetta dall’arcivescovo Richard Smith il 7 agosto 2010. Oltre all’edificio sacro, sul sito si trovano anche una canonica, un confessionale, la Via Crucis, un cimitero e strutture per i pellegrini, tra cui un negozio, uno stand di cibo e servizi igienici. Il luogo è stato dichiarato sito storico nazionale dal governo canadese nel 2004.

L’omelia di Papa Francesco

Cari fratelli e sorelle, âba-wash-did! Tansi! Oki! [buongiorno] È bello per me essere qui, pellegrino con voi e in mezzo a voi. In questi giorni, oggi specialmente, sono stato colpito dal suono dei tamburi che mi hanno accompagnato ovunque sono andato. Questo battito dei tamburi mi sembrava echeggiare il battito di molti cuori: i cuori che, nei secoli, hanno vibrato presso queste acque; i cuori di tanti pellegrini che hanno scandito insieme il passo per raggiungere questo “lago di Dio”! Qui si può veramente cogliere il battito corale di un popolo pellegrino, di generazioni che si sono messe in cammino verso il Signore per sperimentare la sua opera di guarigione.

Quanti cuori sono giunti qui desiderosi e ansimanti, gravati dai pesi della vita, e presso queste acque hanno trovato la consolazione e la forza per andare avanti! Ma qui, immersi nel creato, c’è un altro battito che possiamo ascoltare, quello materno della terra. E così come il battito dei bimbi, fin dal grembo, è in armonia con quello delle madri, così per crescere da esseri umani abbiamo bisogno di cadenzare i ritmi della vita a quelli della creazione che ci dà vita.

Riandiamo così oggi alle nostre sorgenti di vita: a Dio, ai genitori e, nel giorno e nella casa di Sant’Anna, ai nonni, che saluto con grande affetto. Esso ci aiuta a tornare anche alle fonti della fede. Ci permette infatti di peregrinare idealmente fino ai luoghi santi: di immaginare Gesù, che svolse gran parte del suo ministero proprio sulle rive di un lago, il Lago di Galilea. Lì scelse e chiamò gli Apostoli, proclamò le Beatitudini, narrò il maggior numero di parabole, compì segni e guarigioni.

Ora, quel lago costituiva il cuore della «Galilea delle genti» (Mt 4,15), una zona periferica, di commercio, dove confluivano svariate popolazioni, colorando la regione di tradizioni e culti disparati. Si trattava del luogo più distante, geograficamente e culturalmente, dalla purezza religiosa, che si concentrava a Gerusalemme, presso il tempio. Possiamo dunque immaginare quel lago, chiamato mare di Galilea, come un condensato di differenze: sulle sue rive si incontravano pescatori e pubblicani, centurioni e schiavi, farisei e poveri, uomini e donne delle più variegate provenienze ed estrazioni sociali.

Lì, proprio lì, Gesù predicò il Regno di Dio: non a gente religiosa selezionata, ma a popolazioni diverse che accorrevano da più parti come oggi, a tutti e in un teatro naturale come questo. Dio elesse quel contesto poliedrico ed eterogeneo per annunciare al mondo qualcosa di rivoluzionario: “porgete l’altra guancia, amate i nemici, vivete da fratelli per essere figli di Dio, Padre che fa splendere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (cfr Mt 5,38-48).

Così proprio quel lago, “meticciato di diversità”, divenne la sede di un inaudito annuncio di fraternità; di una rivoluzione senza morti e feriti, quella dell’amore. E qui, sulle rive di questo lago, il suono dei tamburi che attraversa i secoli e unisce genti diverse, ci riporta ad allora. Ci ricorda che la fraternità è vera se unisce i distanti, che il messaggio di unità che il Cielo invia in terra non teme le differenze e ci invita alla comunione, a ripartire insieme, perché tutti siamo pellegrini in cammino.

Fratelli, sorelle, pellegrini a queste acque, che cosa possiamo attingervi? Ci aiuta a scoprirlo la Parola di Dio. Il profeta Ezechiele ha ripetuto per due volte che le acque fatte scaturire dal tempio, per il popolo di Dio, “danno la vita” e “risanano” (cfr Ez 47,8-9).

Danno la vita. Penso alle nonne che sono qui con noi: carissime, i vostri cuori sono sorgenti da cui è scaturita l’acqua viva della fede, con la quale avete dissetato figli e nipoti. Mi colpisce il ruolo vitale delle donne nelle comunità indigene: occupano un posto di rilievo in quanto fonti benedette di vita non solo fisica, ma anche spirituale.

E, pensando alle vostre kokum, ripenso anche alla mia nonna. Da lei ho ricevuto il primo annuncio della fede e ho imparato che il Vangelo si trasmette così, attraverso la tenerezza della cura e la saggezza della vita. La fede raramente nasce leggendo un libro da soli in salotto, ma si diffonde in un clima familiare, si trasmette nella lingua delle madri, con il dolce canto dialettale delle nonne. Mi scalda il cuore vedere qui tanti nonni e bisnonni. Vi ringrazio e vorrei dire a quanti hanno anziani a casa, in famiglia: avete un tesoro! Custodite tra le vostre mura una sorgente di vita: prendetevene cura, come dell’eredità più preziosa da amare e custodire.

Il profeta diceva che le acque, oltre a dare vita, risanano. Questo aspetto ci riporta sulle rive del lago di Galilea, dove Gesù «guarì molti che erano affetti da varie malattie» (Mc 1,34). Lì, «venuta la sera, gli portavano tutti i malati» (v. 32). Questa sera immaginiamoci attorno al lago con Gesù, mentre Lui si avvicina, si china e con pazienza, compassione e tenerezza, guarisce tanti malati nel corpo e nello spirito: indemoniati, lebbrosi, paralitici, ciechi, ma anche persone affrante e sfiduciate, smarrite e ferite. Gesù è venuto e viene ancora a prendersi cura di noi, a consolare e risanare la nostra umanità sola e sfinita. A tutti, anche a noi, rivolge lo stesso invito: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). O, come nel brano che abbiamo ascoltato stasera: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva» (Gv 7,37).

Fratelli, sorelle, tutti noi abbiamo bisogno della guarigione di Gesù, medico delle anime e dei corpi. Signore, come la gente sulle sponde del mare di Galilea non aveva paura di gridarti i suoi bisogni, così noi stasera veniamo a te, con il dolore che abbiamo dentro. Ti portiamo le nostre aridità e le nostre fatiche, i traumi delle violenze subite dai nostri fratelli e sorelle indigeni.

In questo luogo benedetto, dove regnano l’armonia e la pace, ti presentiamo le disarmonie delle nostre storie, i terribili effetti della colonizzazione, il dolore incancellabile di tante famiglie, nonni e bambini. Aiutaci a guarire le nostre ferite. Sappiamo che ciò richiede impegno, cura e fatti concreti da parte nostra; ma sappiamo pure che da soli non ce la possiamo fare. Ci affidiamo a Te e all’intercessione della tua madre e della tua nonna. Sì, perché le madri e le nonne aiutano a risanare le ferite del cuore.

Durante il dramma della conquista, fu la Madonna di Guadalupe a trasmettere la retta fede agli indigeni, parlando la loro lingua e vestendo i loro abiti, senza violenze e senza imposizioni. E poco dopo, con l’arrivo della stampa, vennero pubblicate le prime grammatiche e i primi catechismi in lingue indigene. Quanto bene hanno fatto in questo senso i missionari autenticamente evangelizzatori per preservare in tante parti del mondo le lingue e le culture autoctone!

In Canada, questa “inculturazione materna” è avvenuta per opera di sant’Anna, unendo la bellezza delle tradizioni indigene e della fede, e plasmandole con la saggezza di una nonna, che è mamma due volte.

Anche la Chiesa è donna, è madre. Non c’è infatti mai stato un momento nella sua storia in cui la fede non fosse trasmessa in lingua materna, dalle madri e dalle nonne. Parte dell’eredità dolorosa che stiamo affrontando nasce dall’aver impedito alle nonne indigene di trasmettere la fede nella loro lingua e nella loro cultura. Questa perdita è certamente una tragedia, ma la vostra presenza qui è una testimonianza di resilienza e di ripartenza, di pellegrinaggio verso la guarigione, di apertura del cuore a Dio che risana il nostro essere comunità.

Ora tutti noi, come Chiesa, abbiamo bisogno di guarigione: di essere risanati dalla tentazione di chiuderci in noi stessi, di scegliere la difesa dell’istituzione anziché la ricerca della verità, di preferire il potere mondano al servizio evangelico. Aiutiamoci, cari fratelli e sorelle, a dare il nostro contributo per edificare con l’aiuto di Dio una Chiesa madre come a Lui piace: capace di abbracciare ogni figlio e figlia; aperta a tutti e che parli a ciascuno; che non vada contro qualcuno, ma incontro a chiunque.

Le folle del lago di Galilea che facevano ressa attorno a Gesù erano fatte principalmente di gente comune, gente semplice, che portava a Lui i propri bisogni e le proprie ferite. Similmente, se vogliamo prenderci cura e risanare la vita delle nostre comunità, non possiamo che partire dai poveri, dai più emarginati. Troppo spesso ci si lascia guidare dagli interessi di pochi che stanno bene; occorre guardare di più alle periferie e porsi in ascolto del grido degli ultimi; saper ascoltare il dolore di quanti, spesso in silenzio, nelle nostre città affollate e spersonalizzate, gridano: “Non lasciateci soli!”.

È il grido di anziani che rischiano di morire da soli in casa o abbandonati presso una struttura, o di malati scomodi ai quali, al posto dell’affetto, viene somministrata la morte. È il grido soffocato di ragazzi e delle ragazze più interrogati che ascoltati, i quali delegano la loro libertà a un telefonino, mentre nelle stesse strade altri loro coetanei vagano persi, anestetizzati da qualche divertimento, in preda a dipendenze che li rendono tristi e insofferenti, incapaci di credere in sé stessi, di amare quello che sono e la bellezza della vita che hanno. Non lasciateci soli è il grido di chi vorrebbe un mondo migliore, ma non sa da dove iniziare.

Gesù, che ci guarisce e consola con l’acqua viva del suo Spirito, stasera nel Vangelo chiede che anche da noi, dal grembo di chi crede, “sgorghino fiumi di acqua viva” (cfr v. 38).

E noi, sappiamo dissetare le aridità dei fratelli e delle sorelle? Mentre continuiamo a chiedere consolazione a Dio, sappiamo anche darne agli altri? Spesso ci liberiamo da tanti pesi interiori, per esempio dal non sentirci amati e rispettati, proprio incominciando ad amare gli altri gratuitamente. Nelle nostre solitudini e insofferenze Gesù ci spinge a uscire, a dare, ad amare. E allora, mi chiedo: che cosa faccio io per chi ha bisogno di me? Guardando alle popolazioni indigene, pensando alle loro storie e al dolore che hanno subito, che cosa faccio per loro le popolazioni indigene? Ascolto con un po’ di curiosità mondana e mi scandalizzo per quanto accaduto in passato, oppure faccio qualcosa di concreto per loro? Prego, incontro, leggo, mi documento, mi lascio toccare dalle loro storie? E, guardando a me stesso, se mi trovo nella sofferenza, ascolto Gesù che mi vuole portare fuori dal recinto della mia insofferenza e mi invita a ripartire, ad andare oltre, ad amare?

A volte, un bel modo per aiutare un’altra persona è quello di non dargli subito ciò che chiede, ma di accompagnarla, di invitarla ad amare, a farsi dono. Perché è in questo modo che, attraverso il bene che potrà fare agli altri, scoprirà i suoi fiumi di acqua viva, scoprirà il tesoro unico e prezioso che è.

Cari fratelli e sorelle indigeni, sono venuto pellegrino anche per dirvi quanto siete preziosi per me e per la Chiesa. Desidero che la Chiesa sia intrecciata a voi, come stretti e uniti sono i fili delle fasce colorate che tanti di voi indossano. Il Signore ci aiuti ad andare avanti nel processo di guarigione, verso un avvenire sempre più risanato e rinnovato. Credo sia anche il desiderio delle vostre nonne e dei vostri nonni. I nonni di Gesù, i santi Gioacchino e Anna, benedicano il nostro cammino.

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