Sarebbe un distorcere la dinamica dell’Incarnazione, e un falsare il vero senso di quel carisma per eccellenza che è la carità evangelica, se si riducesse la missione del cattolicesimo a quella di una ONG, di una agenzia umanitaria. Soprattutto oggi, soprattutto in questo tempo di “vuoto” interiore, il cattolicesimo è chiamato semmai a un più intenso impegno “contemplativo”. Che non significa rifugiarsi in una spiritualità intimistica, individualistica, e neppure estraniarsi dai problemi degli uomini, bensì ritornare a quello che Giovanni Paolo II definiva il “primato della grazia”, il primato della santità. Cinquant’anni fa, sociologi e teologi parlavano della “morte di Dio”. Ne parlavano perché, dopo Auschwitz, consideravano impossibile che un Essere onnipotente, creatore del cielo e della terra, avesse permesso un simile orrore. Ma anche perché i continui progressi della scienza sembravano smantellare i fondamenti delle religioni, specialmente di quelle rivelate. E intanto, una società sempre più secolarizzata si stava sostituendo a quella che per secoli aveva strutturato il vivere comune e definito i comportamenti personali. Insomma, finito il tempo in cui uno non poteva non dichiararsi cristiano. Invece di Dio, però, scomparve quello che era allora il suo nemico (visibile) numero uno, il marxismo. E, dal fallimento di quello scontro ideologico, anche l’altro avversario (questo più ambiguo, più camaleontico), il liberismo puro e duro, ne uscì con le ossa rotte. Così, saltate le previsioni apocalittiche, sociologi e teologi cominciarono a parlare di un “ritorno di Dio”. Ricavando questo giudizio dalla contemporanea presenza di Giovanni Paolo II, di Khomeini e del protestantesimo evangelico, quali esponenti di religioni che erano tornate a svolgere (islam ed evangelismo nella versione più fondamentalistica) un ruolo da protagoniste a livello mondiale. Anche questo scenario, però, non ha retto molto. Superato dai tanti cambiamenti che si sono via via stagliati sull’orizzonte dell’umanità. Cambiamenti epocali, sul piano politico, sociale, culturale, antropologico, nei diversi ambiti della natura, nei modi di vivere, nella molteplicità dei saperi, delle nuove conoscenze. Dalla globalizzazione alla comunicazione digitale, dalle biotecnologie alla robotica, all’intelligenza artificiale. Con in più l’irruzione di una pandemia mondiale.
Forse non è ancora così evidente. O forse molti non ne hanno percepito il grado di gravità. Ma, da tutto questo, potrebbe scaturirne una ridefinizione di valori e di punti di riferimento fondamentali – come la distinzione tra bene e male, la sacralità della vita, la stessa realtà-uomo – facendo perciò saltare l’ancoraggio al secolare patrimonio cristiano. E se ciò dovesse veramente accadere, quale sarà il posto delle religioni, il loro compito, nella società umana? E la Chiesa cattolica, in particolare, come dovrà affrontare le sfide di un futuro già segnato da tante contraddizioni e tante trasformazioni?
Ad esempio, il cristianesimo non coinciderà più con il solo Occidente, in procinto ormai di diventare periferia del mondo. Nel 2030, secondo gli esperti, la cristianità sarà concentrata per il 70 per cento nell’emisfero meridionale. Nel 2050, dei previsti due miliardi e 600 milioni di cristiani, la grande maggioranza non sarà né bianca, né europea, e neppure euro-americana. Lo stesso cattolicesimo dovrebbe spostarsi ulteriormente verso il Sud: già nel 2010, soltanto il 32 per cento dei battezzati vivevano al Nord, mentre cento anni prima erano il 70 per cento. Integralismi a parte, c’è di positivo che negli ultimi anni si sono attenuati i conflitti confessionali. E s’è registrato un continuo progredire del principio di convivenza, non solo come superamento dell’intolleranza ma anche come condivisione di alcuni obiettivi. Di fatto, Chiese e religioni sembrano caratterizzarsi per una nuova condizione pubblica. Anche perché, sapendo quanto possano influenzare le grandi masse, Stati e governi intenderebbero sollecitarne il contributo sul piano etico, in ordine specialmente alla questione della pace, alla difesa della natura, alla lotta alle povertà, alle ingiustizie.
Qualcuno, esagerando, parla di una super-religione. Sociologi e teologi, invece, di una “mondanizzazione” della religione, ricorrendo come al solito a uno slogan, e sostenendo stavolta che “non è più possibile continuare a dire Dio come lo si diceva cinquanta, cento anni fa”. E questo, per certi versi, è vero: non si può non ripensare il messaggio cristiano nel diverso contesto che si è venuto a creare, e nella cultura che lo permea. Non si tratta di inventare un nuovo Vangelo, ma di comprenderlo in modo nuovo, coglierne l’essenzialità, la freschezza, l’estrema duttilità nel rapportarsi ogni volta a situazioni differenti.