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E’ ora di iniziare a parlare di “eubiosia”

La problematica del fine vita esiste da quando esiste la medicina, la differenza è che nell’ultimo trentennio i medici sono stati completamente esclusi dalla reale gestione del paziente terminale o gravemente sofferente dovendosi assoggettare al seguire protocolli, linee guida e disposizioni di legge non sempre condivisibili.

La differenza, rispetto ad allora, è che il medico conosceva perfettamente il momento esatto in cui, dosando i farmaci e creando tutte le condizioni ottimali, poteva accompagnare il paziente verso una morte dignitosa, astenendosi da qualsivoglia accanimento terapeutico ma non abbandonando mai il paziente a se stesso.

Domenica 12 giugno, saremo chiamati a votare su cinque quesiti referendari che hanno superato il vaglio di ammissibilità della Corte Costituzionale. Tra quelli ritenuti inammissibili vi è quello relativo alla depenalizzazione del cosiddetto “omicidio del consenziente”, un tentativo legale di mettere “la vita ai voti” e legalizzare di fatto l’eutanasia. A tale proposito il Presidente della Corte Giuliano Amato ha detto “Il referendum era sull’omicidio del consenziente e sarebbe stato lecito in casi più numerosi e ben diversi da quelli di eutanasia” e il quesito sull’omicidio del consenziente, come è stato formulato, “apre all’immunità penale per chiunque uccida qualcun altro con il consenso di quel qualcun altro, che sia malato oppure no, che soffra oppure no”,  “Occorre dimensionare il tema dell’eutanasia a coloro ai quali si applica, ossia a coloro che soffrono. Noi non potevamo farlo sulla base del quesito referendario, con altri strumenti, lo può fare il Parlamento”.

La proposta di legge chiamata “disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, così detto “Suicidio Assistito”, è stata viceversa approvata dalla Camera l’11 marzo ed è in attesa di essere discussa al Senato.

A tale proposito dispiace constatare come la regione Marche abbia un triste primato, risultando l’unica nella quale siano state effettuate tali richieste e desideriamo sottolineare, il “triste”, perché un tempo era la nascita di una vita a rappresentare motivo di gioia al contrario di oggi dove la sua interruzione viene celebrata con soddisfazione tanto da essere esibita come “vittoria etica” mentre, di fronte ad una richiesta di voler continuare a vivere, i fragili spesso vengono lasciati soli e abbandonati alla propria condizione di sofferenza.

La realtà è però ben diversa perché la morte, al contrario della vita, è sempre e comunque una sconfitta e non una vittoria, una “sconfitta” per Chi “costretto a chiederla” la subisce, per la Scienza che non è riuscita a fornire tutti quei presidi terapeutici tali da non permettere di giungere a tale richiesta, per la Società che non è stata in grado di assicurare tutte quelle misure assistenziali ed economiche che spesso giustificano tale domanda e infine per la Famiglia che forse non è stata in grado di far sentire il proprio calore affettivo e l’importanza che quella persona per lei rappresentava.

Le condizioni dettate dalla legge presentata in Parlamento relativa al porre in essere il suicidio assistito riguardano: l’essere tenuto in vita da trattamento di sostegno vitali, l’essere affetto da patologia irreversibile, l’essere soggetto a sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili e l’essere capace, infine, di prendere decisioni in maniera libera e consapevole.

E’ indubbio che tutte le condizioni sopra citate possano rappresentare una forte motivazione alla richiesta di suicidio assistito, e tutta la nostra comprensione in questa drammatica scelta, occorre tuttavia ben comprendere come le sofferenze fisiche “obiettivabili” contrastino in alcuni casi con la volontà del paziente che, come previsto peraltro dal disegno di legge, “volutamente e pur potendone usufruire” non accetta le proposte terapeutiche di integrazione della terapia palliativa con farmaci antidolorifici o con ulteriori aiuti domiciliari.

E allora, nella fattispecie, la problematica non risulterebbe più solamente legata allo stato di sofferenza farmacologicamente e clinicamente controllabile, ma verrebbe piuttosto condizionata da una ideologia legata ad una cultura di morte che subdolamente si va facendo sempre più strada nella nostra società.

Le altre condizioni relative alle “sofferenze psicologiche”, sostenute da elementi di soggettività, sono certamente credibili, ma tutte difficilmente valutabili e da rilevare così come, similmente, “l’essere capace di prendere decisioni in maniera libera e consapevole”.

Certamente nella richiesta di aiuto al suicidio la depressione, che si accompagna inevitabilmente alla condizione di malattia, svolge un ruolo fondamentale ricorrendo nel 50% dei casi di suicidio anche per altre cause. E’ del tutto evidente pertanto che, in questa situazione di sofferenza spesso protraentesi per anni, la depressione svolga un ruolo fondamentale non rendendo in realtà, da parte del paziente, “l’essere capace di prendere decisioni in maniera libera e consapevole”.

E’ certamente comprensibile infatti che, in particolari situazioni e al di là della propria condizione, la disperazione che un sofferente può notare nello sguardo di un genitore anziano o del coniuge, senza adeguata disponibilità economica, senza aiuti e non più sostenuto dalla forza di un tempo possa portare, sentendosi un peso per la famiglia, ad uno stato di scoraggiamento tale da giungere ad una richiesta di porre fine alla propria esistenza.

E’ pertanto del tutto prevedibile che, considerando il gran numero di casi di disabili gravi, di stati di minima coscienza e soprattutto di anziani non autosufficienti, secondo tale principio supportato dai suddetti indirizzi legislativi, migliaia di vite rischieranno di essere giudicate come “vite non degne” di essere vissute e quindi vite da sopprimere.

E allora più che di “Suicidio Assistito” o ancor peggio di “Eutanasia”, è piuttosto di “Eubiosia” che vogliamo parlare, cercando quindi di assicurare un fine vita sereno nel rispetto della dignità della persona attraverso la corretta applicazione della legge n. 38 del 2010 che garantisce l’accesso alle cure palliative per ogni tipo di sofferenza. Certamente le cure palliative migliorano di molto la qualità della vita garantendo ad esempio il controllo del dolore, fino alla sedazione profonda.

E’ auspicabile pertanto che la strada da percorrere, per limitare al minimo le richieste di “suicidio assistito”, possa essere proprio quella di implementare su tutto il territorio nazionale i centri per le cure palliative in maniera tale che, almeno in ogni ospedale di provincia, i sofferenti possano usufruire di tali presidi terapeutici.

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