Da oltre un mese assistiamo attoniti e a tratti impotenti alla barbarie della guerra in Ucraina, scoppiata in seguito all’invasione russa avvenuta lo scorso 24 febbraio. Civili massacrati, gente costretta a scappare dalle loro case con solo una piccola valigia, milioni di profughi che si sono riversati nei Paesi confinanti e non solo; ma la situazione di chi ha scelto di rimanere nella propria terra non è migliore: le sirene che avvertono di imminenti attacchi suonano incessantemente, la difficoltà di molti di raggiungere i rifugi, il cibo e l’acqua che non ci sono, soprattutto in città come Mariupol, una delle più colpite durante il conflitto.
L’impatto sui prezzi del cibo nel mondo
La guerra in Ucraina ha un impatto molto forte a livello globale. Con lo stop delle esportazioni da quello che è definito il granaio d’Europa, sono molti i rincari a cui dobbiamo far fronte: aumenta il costo del grano e quindi di tutti i suoi derivati, dell’olio di semi di girasole. Effetti che non si verificano solo in Italia o in Europa, ma su tutto il mercato mondiale del cibo.
La grave situazione del Corno d’Africa
Una minaccia gravissima per il Corno d’Africa, dove oggi più di 13 milioni di persone tra Etiopia, Kenya e Somaliland affrontano da mesi una carestia, i danni di una prolungata siccità e hanno bisogno di aiuti urgenti. All’orizzonte la fame e la malnutrizione severa nei bambini, l’ulteriore aumento della povertà in una regione già duramente segnata dalla pandemia di Covid-19 e le devastanti distruzioni delle locuste del deserto. La decisione del governo ucraino di interrompere l’esportazione di prodotti alimentari di base per dare priorità all’approvvigionamento della propria popolazione unita al blocco russo dell’export ucraino attraverso il Mar Nero mette ancora più in crisi Africa e Medio Oriente, principali partner commerciali di Russia e Ucraina per quanto riguarda le forniture di grano, olio di girasole e fertilizzanti.
Una situazione disastrosa già prima della guerra
Già prima della guerra la situazione era disastrosa: a causa della siccità nel Paese il costo dell’acqua era passato da 1 a 5 dollari per 200 litri, diventando un bene inaccessibile a molte famiglie. Con la guerra il prezzo del riso è quasi raddoppiato: per 25 kg prima si pagava 20 dollari ora ne servono 30. In Somaliland non piove dallo scorso aprile e si stima che la siccità, la fame e la grave mancanza d’acqua metteranno in pericolo 1.2 milioni di persone nei prossimi mesi. I casi di violenza di genere sono aumentati del 24%, specialmente quelli di violenza domestica e matrimoni forzati. In forte aumento anche la percentuale di ragazze e bambine che abbandonano la scuola. I governi di Kenya, Somaliland ed Etiopia stanno investendo in servizi e infrastrutture nelle aree colpite dalla siccità, ma tutti i Paesi devono fornire sostegno per aiutare a costruire riserve alimentari nazionali e regionali che servano da scorte di emergenza e riducano la vulnerabilità alla carenza di cibo e all’oscillazione dei prezzi.
L’intervista
Per fare il punto sulla situazione e capire come la comunità internazionale possa aiutare questi Paesi, dove le persone rischiano seriamente di morire di fame, Interris.it ha intervistato il dottor Roberto Sensi, responsabile del programma diseguaglianze globali ActionAid.
Dottor Sensi, in che modo la guerra in Ucraina produce la fame nel Corno d’Africa?
“Questi Paesi nono sono autonomi dal punto di vista alimentare, dipendono dall’importazione di prodotti agricoli e cerealicoli. Questo è una conseguenza di scelte di politiche alimentari, avvenute sotto l’egida della Banca Mondiale e del Fondo Monetario: ai Paesi africani fu chiesto di specializzarsi in alcune produzioni e di importare tutto il resto. La globalizzazione del cibo rende i Paesi poveri estremamente dipendenti dalle importazioni e vulnerabili agli choc che si possono verificare sul lato dell’offerta”.
Questa situazione si è verificata anche in passato?
“Sì, durante la crisi del 2008 quando i prezzi sul mercato mondiale di prodotti, in particolare dei cereali, salirono. Si verificarono numerose crisi alimentari: questi Paesi importano l’inflazione quando importano il cibo. Un altro elemento da considerare è che a differenza di Paesi come il nostro, il budget che molti Paesi destinano all’acquisto di cibo è molto significativo, può arrivare anche all’80%. E’ chiaro che se i prezzi raddoppiano, sono costretti a dover dimezzare quanto acquistano. In oltre, c’è un altro aspetto da considerare”.
Quale?
“Quella regione vive una crisi climatica prolungata: da diversi anni la stagione delle piogge sostanzialmente non esiste. Ciò crea un’ulteriore dipendenza dalle importazioni di cibo e di aiuti alimentari perché siamo in un contesto dove l’agricoltura sta collassando in ragione dei fenomeni della variabilità climatica. Il combinato di dipendenza dai mercati internazionali e i cambiamenti climatici e, ovviamente, la mancanza di investimenti e risorse da destinare all’agricoltura, determina una conseguenza sul piano sociale enorme: il numero di affamati aumenta e ci troviamo di fronte a una situazione di grave crisi alimentare. Molte area del Corno d’Africa sono definite dal World Food Program hot-spot climatici, zone dove gli eventi avversi climatici sono davvero importanti e significativi”.
Quindi, in parte, la colpa è da attribuire a scelte politiche errate?
“Se nel corso degli anni questi Paesi avessero avuto la possibilità di costruire riserve alimentari, una propria produzione, investire in pratiche agricole sostenibili, sicuramente l’impatto sul tema dell’alimentazione e dell’accesso al cibo su quelle popolazioni sarebbe stato molto più ridotto”.
Questo cosa provoca?
“L’aumento degli affamati, delle persone in grave insicurezza alimentare, ossia che non riescono a mangiare sufficiente cibo, con tutte quelle che possono essere le conseguenze sia sociali sia sulla salute. Si tratta di comunità che si distinguono per due aspetti: quanti vivono in contesti più urbani dipendono più strutturalmente dalle importazioni; se il costo del cibo importato aumenta, aumenterà anche il costo del cibo che vanno a comprare al mercato; poi bisogna prendere in considerazione i contesti rurali dove la dipendenza da determinati prodotti è ridotta, il vero problema è che non si riesce a coltivare né allevare perché non c’è acqua. Le conseguenze sono che nelle comunità rurali non c’è cibo, devono per forza rivolgersi ai contesti urbani dove costa molto caro. Ci si trova così di fronte a un circolo vizioso di insicurezza alimentare, povertà economica e materiale che provoca anche la morte per fame”.
Alcuni esperti di geopolitica, proprio in seguito al blocco delle esportazioni da parte dell’Ucraina, hanno ipotizzato nuove rivolte del pane. È un periodo reale?
“Sicuramente l’aumento dei prezzi del cibo crea discontento e può essere una miccia che accende rivolte. Si è già verificato in tutto il nord Africa, le rivolte del pane poi contribuirono a dar vita alle primavere arabe. L’elemento di fondo è che c’è il rischio che si verifichino molteplici crisi alimentari, questo porterà all’aumento delle persone che soffrono la fame. A tutto ciò, va aggiunto il fatto che veniamo da due anni di crisi pandemica: l’impatto della pandemia sulla sicurezza alimentare di questi Paesi è stato davvero significativo”.
A livello internazionale, come i governi potrebbero contribuire al benessere di questi Paesi?
“I Paesi cosiddetti sviluppati potrebbero fare tantissimo, invece fino ad oggi hanno fatto pochissimo. Sono responsabili di questa situazione, sono loro ad aver imposto un modello di globalizzazione che ha fatto sprofondare nella crisi i Paesi africani. In primo luogo serve un aumento dell’aiuto pubblico e della cooperazione internazionale. Investire di più nell’agricoltura di questi Paesi, favorire un’agricoltura sostenibile e renda sovrani questi Paesi dal punto di vista alimentare. Servono regole commerciali più eque che consentano di tutelare l’agricoltura come settore vitale per quelle comunità”.
Come ActionAid sta rispondendo a questa crisi?
“Noi lavoriamo sugli approcci di adattamento, ossia cerchiamo di aiutare le comunità a diventare resilienti di fronte ai cambiamenti climatici. Si può fare lavorando su un pratiche di economia e di agricoltura sostenibile agro-ecologica, un’agricoltura più capace di adattarsi alle condizioni che ci sono in quella zona: scegliendo colture che hanno bisogno di meno acqua, ad esempio, pratiche più sostenibile e resilienti; migliorare l’accesso all’acqua e all’energia. Lavoriamo soprattutto sulle donne che, in contesti di crisi, rischiano di essere vittime di violenza, hanno su di loro il peso della cura familiare e sono le responsabili del cibo della famiglia: attraverso gli orti comunitari devono produrre e garantire il fabbisogno della famiglia. Con loro facciamo un lavoro di sostegno sia materia sia psicologico e di empowerment”.