Giacomo che voleva andare nello spazio, Isabella che voleva una casetta gialla nel suo giardino, Vittorio che voleva essere uno sceriffo. Sono solo alcuni dei piccoli grandi eroi dai sogni più grandi di tutto il peso che la vita può mettere sulle loro spalle. In migliaia hanno potuto realizzare i propri desideri grazie a Make a Wish l’organizzazione no profit che dal 2004 realizza i desideri di bambini affetti da malattie gravi. Quasi 2.400 desideri esauditi negli ultimi 17 anni, tante le storie che Make a Wish ha accolto, sostenuta dalle donazioni e dalla tenacia di un gruppo piccolo e solido diventato negli anni una vera famiglia composta da un esercito di volontari.
L’associazione, nata in America nel 1980, è arrivata in Italia attraverso la forza di una madre e un padre: Sune e Fabio Frontani, genitori di Carlotta, scomparsa per una grave patologia a 10 anni. Un dolore che nel cuore di madre di Sune ha piantato un seme, sbocciato nella volontà di aiutare altri bimbi come la sua, che oggi avrebbe 29 anni ed è sempre presente in ogni desiderio realizzato dalla Onlus che, complici le restrizioni imposte dalla pandemia, negli ultimi 18 mesi ha visto la lista dei piccoli pazienti con un sogno nel cassetto allungarsi sempre più. Attualmente sono circa 250 i sogni che si possono adottare e sostenere con una donazione attraverso il link dona.makeawish.it per dare una possibilità a tanti piccoli che non smettono di credere nella realizzazione del loro sogno. «Sono tedesca ma il nome scelto dai miei genitori ha origini svedesi. Sono in Italia da 33 anni da quando ho conosciuto mio marito Fabio, genovese» racconta Sune. Che è rimasta in Italia proprio per amore di suo marito, co-fondatore dell’associazione.
Make a Wish è arrivata in Italia grazie a voi. Come è nato il vostro percorso?
«Carlotta è stata la nostra ispirazione. Nostra figlia era gravemente malata. Siamo stati due anni a Berlino, in un centro specializzato, ma lei voleva tornare a casa e così siamo tornati a Genova. Carlotta non ce l’ha fatta è mancata a 10 anni all’ospedale Gaslini, il 4 novembre di 19 anni fa. Per onorarla poco dopo la sua morte abbiamo deciso di affiliarci a questa associazione americana meravigliosa. Abbiamo saputo da Internet della loro missione così speciale e compatibile con il carattere della nostra Carlotta, una bambina molto gioiosa, energica e generosa. C’erano tante cose da sistemare burocraticamente ma ce l’abbiamo fatta. In Italia, infatti, non c’era nessuna associazione analoga con questa caratteristica specifica della realizzazione dei sogni di bimbi gravemente malati. Abbiamo fatto tanta strada e ne siamo molto fieri».
Come arrivano le richieste?
«Un bambino può essere segnalato alla nostra associazione da chiunque, ma spesso sono i genitori che ci contattano. I ragazzi più grandi grazie ai social ci contattano direttamente con un semplice messaggio, poi ci sono medici, psicologi, assistenti sociali. Una grande rete che mi riempie di orgoglio. All’inizio in pochi ci credevano, eravamo guardati con un po’ di diffidenza per le nostre missioni apparentemente impossibili. Al Gaslini ci conoscevano, ci hanno dato fiducia, hanno iniziato a segnalarci i bimbi, i loro sogni, ed è cresciuto tutto con il tam tam che ne è derivato».
È facile realizzare un sogno?
«Un sogno è una costruzione per la quale ci vuole una rete di contatti importante. Noi li avevamo da un punto di vista internazionale grazie all’affiliazione con una società straniera. Grazie a questo abbiamo potuto mandare tanti ragazzi all’estero. I nostri amici americani ci hanno aiutato, altrettanto facciamo noi se un bimbo straniero vuole conoscere per esempio il Papa o Valentino Rossi o Andrea Bocelli forniamo i nostri contatti in Italia. Per noi è fondamentale questa rete che ci permette di realizzare sogni che sembrano impossibili.
Un esempio?
«Abbiamo aiutato un ragazzo napoletano il cui desiderio era incontrare Donald Trump alla Casa Bianca. Grazie al nostro network negli Stati Uniti abbiamo aspettato parecchio ma poi abbiamo ricevuto l’invito e il nostro ragazzo ha potuto passare mezz’ora nella stanza ovale con Trump. Ma sono tanti i desideri e quelli che ci piacciono di più sono quelli dei bimbi che chiedono di vestire per un giorno i panni di qualcuno: un cavaliere, una principessa, un supereroe. Sono sogni che ci permettono di spaziare con la creatività».
Cosa è cambiato con l’arrivo del Covid?
«Prima della pandemia, nel 2019, abbiamo realizzato in un anno 250 desideri. Da marzo 2020 invece da un giorno all’altro tutto è rimasto fermo: c’erano bimbi che avevano già i biglietti aerei tra le mani, per noi è stato terribile sentire la delusione di questi bimbi costretti ad aspettare ancora. È stato devastante, ci ha tolto il sonno. Abbiamo inoltre deciso di sospendere ogni richiesta di raccolta per lasciare spazio a tutti quelli che raccoglievano fondi per combattere il Covid. Ci siamo messi da parte, e questo ha fatto sì che la raccolta fondi per la nostra associazione crollasse del 70%. Adesso cerchiamo di recuperare chiedendo un supporto per ripartire. Dieci giorni fa abbiamo riportato il primo bimbo verso il suo sogno: Luca, dalla Liguria, è potuto partire per Legoland, in Danimarca Stiamo ripartendo e abbiamo necessità di realizzare i sogni sospesi da tanto e non vogliamo fare aspettare i bimbi per mancanza di fondi. Per fare tutto dobbiamo recuperare quello che abbiamo perso».
Cosa rappresenta un sogno realizzato?
«Un desiderio che si avvera regala al bimbo una speranza, gli fa capire che tutto è possibile e questo ha un impatto enorme sulla sua salute. I bimbi reagiscono alle emozioni positive e la differenza la sentono anche i genitori».
Come se fosse una terapia complementare?
«Noi la chiamiamo proprio così. È una cura che comprende questi momenti di felicità e mette insieme l’intera famiglia. Tante famiglie sono separate, molte crollano. I bimbi sono magari a chilometri di distanza in un ospedale con uno dei genitori e il resto della famiglia a casa. Vediamo situazioni drammatiche e abbiamo stabilito da sempre che un sogno debba comprendere tutti i componenti familiari».
C’è una storia che ricorda in particolare?
«Me lo chiedono spesso, ma sono tutte troppo belle. In particolare ricordo un recente desiderio che si è svolto a Cinecittà a giugno dello scorso anno, quando abbiamo accompagnato Vittorio, un bimbo affetto da una patologia rara che lo costringe all’immobilità. Lui adora i western e voleva essere uno sceriffo per un giorno, aveva anche le idee molto chiare: voleva catturare suo fratello che doveva rappresentare un bandito e che sua madre fosse proprietaria di un saloon. A Cinecittà sono stati straordinari, hanno creato una sceneggiatura, chiamato attori e ricostruito questo meraviglioso sogno come un film. La mamma era commossa e Vittorio un bambino felice».
Lei è serena oggi?
«Serena, affaticata, ma felice. Faccio un lavoro emotivamente impegnativo, faticoso e difficile, ma sono contenta di aver creato tutto questo con poche persone. Abbiamo solo 9 dipendenti e 250 volontari in tutta Italia, tra cui me, che sono rimasta volontaria. L’idea di aver cambiato la vita a tanti bimbi mi riempie la vita».