Nel corso delle audizioni compiute dalla Commissione Bilancio del Senato durante l’esame del disegno di legge riguardante la manovra 2022-2024, la Banca d’Italia nella nota illustrata e consegnata agli atti ha precisato correttamente il rapporto tra gli interventi in materia fiscale e la riduzione del cuneo fiscale e contributivo. E’ bene preliminarmente chiarire quale sia l’operazione finanziaria che si spiega con la metafora di una figura geometrica. Il cuneo della discordia è dato dalla differenza tra il costo del lavoro a carico del datore e il salario netto in busta paga del lavoratore. Per fare un esempio con i numeri posto uguale a 100 la retribuzione lorda di un operaio, all’azienda il costo complessivo è pari a 144, mentre in busta paga arrivano 72 unità di misura. E’ ovvio che si tratta di un conteggio approssimativo (perché ogni busta paga ha la sua storia), ma il concetto è chiaro. Per come se ne parla sembrerebbe che il “cuneo fiscale e contributivo’’ fosse una sorta di nodo gordiano da recidere con un colpo di spada, che ‘’sta nella vigna a far da palo’’ per colpa di una burocrazia che taglieggi i lavoratori e le imprese. Invece, siamo in presenza di risorse di cui si conoscono la natura e la destinazione: il pacchetto di aliquote attraverso le quali i datori e i lavoratori finanziano la maggior parte delle prestazioni sociali. Ben 33 punti del differenziale a cui si faceva riferimento riguardano l’aliquota pensionistica.
Ormai sul versante della fiscalizzazione dei c.d. oneri impropri si è già raschiato – più volte – il fondo del barile. Certo, l’uso della leva fiscale può concorrere alla riduzione del differenziale tra retribuzione lorda e netta, ma non a ridurre il costo del lavoro. Ed è assai problematico ridurre la parte contributiva del cuneo (anche il governo ha proposto di farlo per un anno per i redditi al di sotto dei 35mila euro). Il costo del lavoro in senso ampio comprende la remunerazione del lavoro dipendente (retribuzioni, compensi in denaro e in natura, contributi sociali a carico del datore di lavoro), i costi della formazione professionale e altre spese (quali spese di assunzione, spese per indumenti da lavoro e imposte inerenti all’occupazione e considerate come costo del lavoro meno i contributi percepiti). Secondo le rilevazioni di alcuni anni or sono, dell’Istat riguardante le retribuzioni e il costo del lavoro, nelle unità economiche, con 10 dipendenti e oltre, il costo del lavoro in senso ampio, ossia il complesso delle spese sostenute dai datori di lavoro per impiegare lavoratori, è stato pari a 41.785 euro per dipendente: il cui 72,4% è costituito dalle retribuzioni lorde e il 27,3% dai contributi sociali. La restante parte è composta dai costi intermedi connessi al lavoro, tra cui le spese di formazione professionale che contano per lo 0,2%. All’interno delle retribuzioni lorde, quelle in denaro rappresentano il 71,6% del costo del lavoro in senso ampio e sono costituite da importi erogabili in ogni periodo di paga (56%), importi non erogabili in ogni periodo di paga, ovvero quelli relativi a tredicesima e altre mensilità aggiuntive, premi annuali, ecc. (9,2%) e remunerazioni per giorni non lavorati per ferie, festività, permessi (6,3%). Le retribuzioni in natura ammontano allo 0,7% del costo del lavoro in senso ampio. Completano il quadro, secondo l’Istat, le diverse componenti dei contributi sociali. Il 27,3% complessivo è costituito principalmente da contributi obbligatori per legge (20,9%). La parte di contributi volontari e contrattuali incide per lo 0,4% mentre TFR e contributi sociali figurativi hanno un peso rispettivamente del 3,6% e del 2,4%.
Bastano questi dati a far comprendere che le riduzioni del costo del lavoro possono verificarsi soltanto sul versante di quella contribuzione sociale che finanzia – con un apporto decrescente – le prestazioni del welfare. Del resto, tutti gli aggravi caricati sul sistema pensionistico in tempi sia antichi che recenti (compresa quota 100 e le altre misure) sono stati finanziati dalla fiscalità generale. E’ sempre più evidente, allora, che la tanto decantata corrispettività – alla base del principio assicurativo – tra contributi versati e pensione è soltanto un’illusione ottica. Se si volesse davvero riordinare il sistema, tanto varrebbe allocare i trasferimenti dal bilancio dello Stato in un trattamento di base di carattere universale, sul quale potrebbe innestarsi un secondo pilastro obbligatorio, a questo punto finanziato con un’aliquota più bassa dell’attuale anche di 8 o 9 punti (e con conseguente riduzione del costo del lavoro). Ovviamente occorrerebbe un periodo di transizione fondato su una ristrutturazione delle risorse oggi destinate al sostegno dell’assistenza. Sarebbe da augurarsi che l’avvio del confronto tra sindacati e governo prendesse in considerazione tale ipotesi, in stretta relazione – come è ben comprensibile con la riforma fiscale di cui nella legge di bilancio ci sarà appena un inizio.
La manovra di bilancio destina 6 miliardi per il 2022 e 7 dal 2023 a una diminuzione permanente della pressione fiscale i cui dettagli attuativi saranno definiti successivamente; tenendo conto dei fondi già previsti a legislazione vigente, le risorse disponibili a questo scopo ammontano complessivamente a 8 miliardi all’anno. Il disegno di legge specifica che gli interventi di riduzione della pressione fiscale – per 7 miliardi – riguarderanno la revisione dell’Irpef, con il duplice obiettivo di ridurre il cuneo fiscale sul lavoro e le aliquote marginali effettive, e – per un miliardo – quella dell’IRAP. Poiché il prelievo a carico del reddito del lavoro dipendente (e dei pensionati) rappresenta poco più della metà del reddito complessivo dichiarato, l’obiettivo di ridurre il cuneo fiscale che grava su di essi diviene più efficacemente raggiungibile con la revisione di detrazioni e trattamento integrativo piuttosto che con la sola riduzione delle aliquote (che favorirebbe anche i redditi diversi da quelli da lavoro dipendente).
Ciò consentirebbe interventi più selettivi anche per l’obiettivo di riduzione delle aliquote marginali effettive, concentrando le risorse sulla platea di contribuenti esposta alle criticità più evidenti. Per quanto riguarda l’IRAP il Governo indica invece l’intenzione di ridurne l’aliquota. Questo intervento segue una serie di misure adottate in passato che hanno modificato significativamente le caratteristiche dell’imposta e ne hanno ridotto il gettito (dal picco del 2,5 per cento del PIL registrato nel 2007 all’1,2 nel 2020). Misure che riducano ulteriormente le entrate generate dall’IRAP dovranno tenere conto del suo ruolo nel finanziamento del Sistema sanitario nazionale – specie in quelle Regioni dove la gestione della sanità è in disavanzo – individuando soluzioni alternative, essendo l’IRAP una imposta di carattere regionale a parziale (ma in quote rilevanti) copertura della spesa sanitaria.
Da queste sintetiche considerazioni emerge quanto sia grande negli italiani la fede nella Provvidenza. Non si rinuncia ad aumentare la spesa corrente, mentre si ha la pretesa di ridurre le entrate. Nel nostro caso la Provvidenza si avvale – fin che dura – del soccorso della BCE che acquista i nostri titoli di Stato e della quota del Recovery Fund che ci è riservata. Ma ce la hanno detto fin dall’inizio: spendere sì ma farlo bene grazie anche ad una politica rigorosa di riforme. La situazione attuale non è diventata la normalità, ma resta una fase eccezionale dovuta ad una emergenza straordinaria. E’ bene allora pensare che prima o poi la ‘’pacchia’’ finirà. E non ci saranno altre occasioni.