Ci sono solamente tre chilometri, quattro al massimo, per andare dal Vaticano alla sinagoga. E invece, a pensarci bene, è un viaggio lungo, lunghissimo, durato duemila anni. La storia del cristianesimo coincide con la storia della frattura, sempre più profonda, sempre più dolorosa, che si era prodotta con l’ebraismo. Ma chi avrebbe mai immaginato che, a compiere questo viaggio, a cercare di saldare in qualche modo quella rottura, sarebbe stato un Papa venuto dalla terra dove si era in gran parte consumato il genocidio del popolo ebraico?
Giovanni Paolo II era stato ad Auschwitz. «Non potevo non venire qui come Papa», aveva detto. «Vengo e mi inginocchio su questo Golgota del mondo contemporaneo». Ma papa Wojtyla voleva di più. Pensava a qualcosa che potesse restare nella memoria ma anche nel cuore dell’intero mondo ebraico. E nel riferirsi alle lapidi che commemorano le vittime del nazismo, Wojtyla fece una aggiunta a sorpresa: accennò anche alla lapide russa, per sottolineare le sofferenze di quella nazione nella lotta per la «libertà dei popoli». Polacco sì, ma non di parte.
Il palco con l’altare era stato eretto nel vicino campo di Birkenau, su quella piattaforma tristemente famosa; si fermavano lì i treni con i vagoni piombati che avevano deportato ebrei da tutta Europa. Già quella visita, perciò, era stata un gesto di grande spessore, di grande significato. E poi, c’era un altro problema aperto. I padri del Concilio Vaticano II, con il decreto “Nostra aetate”, avevano scritto un documento rivoluzionario. La Chiesa cattolica riconosceva di non poter entrare nella comprensione del suo stesso mistero, se non a partire dalle proprie “origini” ebraiche; e cioè, dal vincolo che lega spiritualmente il popolo del Nuovo Testamento con la stirpe di Abramo.
Ebbene, erano passati vent’anni dalla chiusura del Vaticano II, e c’erano non pochi cattolici, i quali mostravano ancora una certa riluttanza a riconoscere il nuovo atteggiamento della loro Chiesa verso l’ebraismo, a cominciare dalla cancellazione del “deicidio”. Per cui restavano un po’ tutti i pregiudizi e i preconcetti sugli ebrei. Restava una «zona grigia», come diceva Primo Levi, al fondo di molte coscienze. E allora, che cosa fare perché le affermazioni rivoluzionarie del Concilio fossero accettate da quelle coscienze così restie ma fossero anche credute da ebrei che avevano patito nella loro carne le offese di un antisemitismo cattolico?
Ed ecco che spuntò l’idea della visita a una sinagoga. Anche perché, essendo in programma un viaggio negli Stati Uniti, era arrivata una proposta del genere da parte dell’arcivescovo di Los Angeles. Il Papa pensò di parlarne a pranzo con i suoi più diretti collaboratori; e uno dei presenti, a un certo punto, se ne uscì: «Santo Padre, ma allora perché non cominciare dalla sua diocesi?». Così, la scelta cadde sul Tempio Maggiore della comunità ebraica di Roma. Era la soluzione più logica, e, oltretutto, soddisfaceva un desiderio che Giovanni Paolo II coltivava da tempo. Dunque, un Papa entrava per la prima volta in una sinagoga. E questo Papa aveva conosciuto l’ebraismo dall’interno. Nella cittadina di Wadowice, dove Karol Wojtyla era nato, la convivenza con gli ebrei faceva parte della quotidianità. Più tardi – come spesso ricorderà- anche lui aveva vissuto «in certo modo» la tragedia della Shoah. Molti dei suoi compagni erano scomparsi in guerra e, quelli ebrei, nei campi di sterminio nazisti. Insomma, un Papa che, per la sua storia, per le sue esperienze, poteva compiere credibilmente quell’atto di riparazione, di pentimento e di solidarietà verso tutti gli ebrei, di ieri e di oggi.