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Elena, volontaria “consapevole” e la sua storia

L'esperienza di volontariato è molto impegnativa e deve rispondere a delle precise domande di senso per chi la vuole mettere in pratica

Nel 2019, Elena, studentessa italiana di ventiquattro anni, ha iniziato un Master in “African Studies” presso l’Università di Copenaghen. Da sempre curiosa di conoscere le radici delle disuguaglianze diffuse nel continente africano, nel 2017 ha avuto una rivelazione.
Prima di scrivere la sua tesi di laurea, ha deciso di partecipare a un progetto di volontariato a Zanzibar, in Tanzania.

“Pensavo che la mia carriera dovesse concentrarsi sulle dinamiche africane. Sono partita perché avevo un anno sabbatico, volevo iniziare a trovare il modo di avvicinarmi a una realtà diversa dalla mia e vedere che tipo di studi perseguire. Sono profondamente interessata alle questioni migratorie e di genere. Tuttavia, l’unico tipo di esperienza che potevo fare senza una laurea e con poca esperienza lavorativa era il volontariato. Così, ho scelto Zanzibar per un progetto per il quale dovevo insegnare l’inglese a un gruppo di donne swahili che gestivano una sartoria, quindi le ho anche aiutate con alcune attività correlate”.

Com’era l’ambiente e il tuo rapporto con quelle donne?

“Una volta arrivata, ho scoperto che quasi tutte queste ragazze erano molto giovani. La donna più anziana era la responsabile della sartoria e l’obiettivo principale era formare giovani ragazze con disabilità, per facilitare il loro accesso al mercato del lavoro. Oltre a vendere vestiti e merce, lo scopo principale della sartoria era creare una rete e un ambiente di lavoro che permettessero alle giovani ragazze di raggiungere l’indipendenza per il loro futuro. Sono partita per unirmi a un’iniziativa comunitaria che aveva già un impatto positivo a livello locale. Tutte le donne erano musulmane quindi all’inizio è stato difficile per me capire i loro bisogni e le loro usanze, ma, con il tempo, abbiamo creato un legame molto forte. Il mio compito nell’esperienza di volontariato era di dare lezioni d’inglese e aiutare a gestire la sartoria, in termini di attività di marketing”.

E la tua impressione sulla cultura locale e il tuo rapporto con essa?

“Devo dire che, di per sé, Zanzibar non corrisponde molto all’immagine collettiva che noi europei abbiamo dell’Africa. Zanzibar è al 99% musulmana, fa parte della Tanzania, ma è molto diversa come ambiente. Inoltre, il fatto che sia un’isola con spiagge meravigliose la rende una destinazione turistica molto popolare. Quindi non ero l’unica occidentale, anzi, ce n’erano molti. Zanzibar è un crogiolo di culture diverse, con grandi comunità libanesi e siriane come risultato della migrazione. Si possono trovare persone provenienti da tutte le parti d’Europa e, anche se la maggioranza della comunità è musulmana, ci sono anche i cristiani. Tutti vivono insieme armoniosamente. Sono arrivata pensando che avrei avuto uno shock culturale in quanto europea, ma, in realtà, è stato il contrario perché il turismo porta molti italiani. Dopodiché ho avuto la sensazione di entrare in un luogo internazionale con la presenza di molti volontari”.

Cosa diresti a chi vuole fare volontariato in Africa?

“Prima di tutto bisogna chiedersi cosa si vuole fare e perché e se è in linea sia con i propri interessi che con quelli della gente del posto. Ripensando alla mia esperienza, penso che avrei potuto fare una scelta più matura. Col senno di poi avrei scelto un’altra località per evitare un ambiente così turistico. Bisogna capire che l’Africa è un continente molto vasto e non si deve usare l’esperienza del volontariato meramente per far apparire più appetibile tuo CV: il volontariato è una scelta che va fatta per il bene degli altri. Ecco perché le cose che dovresti considerare sono come, dove e se puoi essere utile con le competenze che hai. Infatti, credo che il problema principale del volontariato sia che alcune persone potrebbero non avere le competenze giuste per aiutare la comunità nel miglior modo possibile, quindi questa è un’altra cosa da tenere in considerazione. Altrimenti si finisce per alimentare il complesso del salvatore occidentale. Io sono stata un esempio di questo errore. Sono andata lì per lavorare in una sartoria senza le giuste skills, ho insegnato inglese alle ragazze senza essere madrelingua e senza conoscere lo swahili. Mi sono trovata in un ambiente molto delicato, con molte dinamiche che mi hanno portato lontano dalla mia comfort zone, ma che ho dovuto imparare a capire e rispettare. Ho dato il mio contributo ma avevo la sensazione che non si stesse costruendo una rete continua nel tempo. Così, mi sono resa conto che essere volontaria significa avvicinarsi ad un ‘ecosistema’ diverso, avendo spesso poco tempo per imparare a gestire certe difficoltà, con il rischio di fare più male che bene. Non sono stata completamente soddisfatta, ma l’esperienza ha aumentato la mia curiosità verso ciò che avrei voluto studiare in seguito, ‘African Studies’. Comunque, è stata un’esperienza incredibile perché mi ha permesso di entrare in contatto con un mondo diverso dal mio. Il volontariato non è solo un’esperienza personale, ma anche e soprattutto qualcosa che si fa per aiutare una comunità”.

 

Le domande giuste da porsi per fare volontariato

Come ha evidenziato Elena durante la nostra chiacchierata, il rischio è di accrescere l’immagine di un continente bisognoso, basandosi sul presupposto implicito di andare ad aiutare. Prima di iniziare un’esperienza di volontariato ci sono cose importanti da chiedersi: come posso essere utile? Che cosa posso fare per migliorare la situazione?

Cosa vuole ottenere l’organizzazione? C’è un progetto a lungo termine che aiuterà la comunità a sviluppare a sua volta piani autonomi? O stiamo creando un sistema di dipendenza? Queste domande sono utili e segnano la differenza tra Volontariato e “Volonturismo“. Questa è una delle ragioni che hanno spinto Elena ad iniziare “African Studies” un corso di laurea magistrale offerto dall’Università di Copenhagen.

“Il mio desiderio iniziale era quello di capire perché ci fossero certi problemi nel nostro modo di vedere, comportarci e trattare l’Africa. Due anni dopo, il corso ha risposto a molte delle mie domande. La lezione più importante che ho imparato è di mettere sempre in discussione la mia posizione: vengo da un paese occidentale, sono un’europea che studia un altro continente, quindi devo sempre mettere in discussione il mio punto di vista.

Bisogna sempre tenere a mente che il tipo di interazione da stabilire è una partnership tra pari, non devo imporre il mio sistema di conoscenza ma trovando soluzioni in accordo con le pratiche e i desideri locali.

Se avessi fatto volontariato dopo il master, l’avrei fatto con una coscienza diversa, non sarei andata in una sartoria ma forse in una scuola o in un’università. Due aspetti fondamentali per capire come affrontare l’Africa e le attività di volontariato in questo continente sono la consapevolezza della situazione e dell’obiettivo”.

Il volontariato non è solo un’esperienza personale, è anche un’opportunità condivisa di crescita reciproca. Fai volontariato per aiutare una comunità, ma questa ti aiuta a sua volta.  Questo è il tipo d’interazione che deve dare forma a qualsiasi progetto di volontariato.

Edoardo Biral, tirocinante della Cooperativa Volunteer in the World

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