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Riforme organiche: qui si gioca il futuro della Penisola

Non è un mistero che il primo obiettivo del neonato governo Draghi non sia la salvaguardia dei conti pubblici, come fu per Monti dieci anni fa, ma il rilancio dell’economia italiana e l’ammodernamento del sistema Paese.

Checché ne dicano certe narrazioni l’Italia ha smesso di crescere in termini reali da decenni, al più languiva in uno stato di stagnazione senza riuscire ad agguantare una vera ripresa, soprattutto dopo la lunga crisi iniziata con la celebre questione dei sub prime americani e il crollo di Lehmann Brothers e trasformatasi in recessione esattamente a cavallo dell’esperienza di governo montiana.

Complice di tutto questo, senza nascondersi dietro facili distinguo, è l’immobilismo che ha sempre caratterizzato l’azione politica fin quasi dall’inizio della cosiddetta Seconda Repubblica, una situazione paradossale che ha impedito al Paese di ammodernarsi e di crescere tanto che i pochi tentativi, anche non certo strampalati, di riforma strutturale venivano, poi, affossati dalla maggioranza parlamentare seguente oppure, se si fosse trattato di una vera modifica dell’assetto istituzionale, da campagne referendarie massicce volte alla bocciatura di qualsiasi tentativo organico di riforma della carta costituzionale.

Ora il problema non è da poco perché è su un piano di riforme organiche e non abbozzate che ci si gioca il futuro della penisola e la possibilità di tornare a crescere e produrre ricchezza e benessere.

Nel quadro nazionale i punti di intervento sarebbero moltissimi ma focalizziamoci sui tre punti indicati dal neo Premier come programmatici: riforma delle PPAA, della giustizia civile e fiscale.

In pratica l’azione, anche correttamente, si vuole concentrare sulle fondamenta stesse su cui si basa il sistema economico per poterlo rilanciare e creare l’humus per i futuri interventi che saranno da avviare non appena terminata l’azione, quasi titanica, necessaria per portare a terra il piano riformista.

Se si dovesse ascoltare il “sentire comune”, comunque, non ci sarebbe nulla da riformare ma da abbattere completamente per ricostruire il tutto da capo; in questa maniera l’impresa da titanica diverrebbe, però, impossibile per via dei troppi interessi in gioco e del poco tempo a disposizione.

La soluzione migliore, quindi, sarebbe quella di prendere atto della struttura vigente e di intervenire, anche con l’ascia se necessario, per rendere più efficiente il sistema e più amichevole verso il cittadino e l’impresa.

Quando si parla di PPAA si apre un mondo, tra pregiudizi, inefficienze e eccellenze tutto racchiuso sotto questo nome a fare da cappello.

È evidente che non potrebbe esistere un sistema efficiente senza una “cinghia di trasmissione” tra gli organi di governo e le forze produttive sul territorio ma, come nel caso delle automobili, questa deve essere il più possibile sicura e efficiente.

Potrà sembrare una banalità, visto che se ne parla da anni, ma la necessità di completa digitalizzazione della pubblica amministrazione non è più differibile; non si parla solo dei singoli database, anche se l’opera di conversione non è ancora finita, ma anche e soprattutto della possibilità di interrogazione e di interazione tra un ente e i suoi archivi con un altro.

Da qui sarebbe estremamente agevole ridurre gli obblighi esistenti poiché con una singola pratica sarebbe possibile aggiornare i dati di ogni branca del pubblico e arrivare anche allo svecchiamento e alla riforma di diverse figure professionali che, oltre a diventare più spendibili sul mercato anche internazionale, permetterebbero di avere un altro approccio verso il cittadino e l’impresa agevolando il rapporto tra questi ultimi e gli organi dello stato.

Non è sicuramente questo il luogo per discutere di come e cosa fare, la questione è assai complessa e deve essere trattata con i tempi e la professionalità necessaria per capire quali siano gli indirizzi e gli spazi di intervento ma è evidente a chiunque che di possibilità di azione ce ne sia.

Il secondo punto indicato da Mario Draghi riguarda la riforma della giustizia civile, cosa che non avrà sicuramente alcuna obiezione ideologica da parte di alcuno poiché la sezione penale non verrà toccata (almeno non ora) proprio per evitare contraccolpi sia a livello di difese corporative da una parte sia a livello di alzate di scudi ideologiche da parte di alcune fazioni politiche.

Mentre su una riforma della giustizia penale il governo potrebbe andare a schiantarsi come già successe ad altri esecutivi nel passato, un vero progetto dal lato civile difficilmente troverebbe ostacoli poiché è nell’interesse di tutti che questo sia veloce, efficiente e giusto.

La certezza nell’adempimento delle obbligazioni e nella tutela delle parti contraenti è una delle basi essenziali di un sistema economico efficiente, garantendo l’effettività dei crediti e la tutela dei diritti patrimoniali di imprese e individui e la situazione italiana, con i tempi eccessivamente lunghi dei giudizi, unitamente a una certa arbitrarietà degli stessi, non è sicuramente un punto di forza a favore del Paese se qualcuno volesse indirizzare un piano di investimenti verso l’Italia.

Infine si arriva al punto caldo: il fisco. Non credo ci sia nessuno che possa pensare che il sistema fiscale italiano abbia qualcosa di salvabile.

Al di là dell’ingordigia erariale, che colloca l’Italia tra gli stati con la più alta imposizione fiscale al mondo, è proprio il numero di balzelli e di scadenze fiscali, unita a una certa prolissità del sistema caratterizzato da un numero assai elevato di tributi, rendono assai difficoltoso rapportarsi con gli obblighi che lo stato richiede a cittadini e imprese.

La soluzione migliore, credibilmente, sarebbe quella fare tabula rasa e di ricreare tutto da capo prendendo ad esempio delle strutture fiscali più semplici ed efficienti ma questo, credibilmente, comporterebbe anche una profonda revisione istituzionale che dovrebbe passare per una revisione costituzionale.

La storia insegna che processi simili siano assai difficili in questo paese per via di un certo conservatorismo sulle istituzioni e sulla difficoltà dei cittadini di comprendere i vantaggi e gli svantaggi di riforme siffatte (probabilmente il difetto maggiore è di comunicazione da parte delle forze riformiste che pensano sempre di doversi rapportare alle élites e dimenticano che le battaglie si vincono in piazza e non nei salotti.

Per queste ragioni la soluzione migliore è quella che potrebbe essere definita come un equilibrio di Nash o di second best, nel senso che si cerca un modello più semplice ed efficiente e lo si applica alla struttura già esistente.

Sui redditi personali si parla di modello danese che è strutturato su una componente impositiva nazionale, una comunale, un contributo al mercato del lavoro e un’imposta ecclesiastica, il tutto inserito in un sistema di progressività che vede l’aliquota marginale di diversi punti più alta di quella esistente in Italia.

Bene, il punto non sarebbe prendere le stesse aliquote ma prendere ad esempio il modello per adottarlo sulla realtà locale. Interessante potrebbe essere una componente progressiva anche mantenendo le attuali aliquote ma rimodulandole su una corposa no tax area comune per tutti indipendente da deduzioni e detrazioni, magari mantenendo il livello di quella esistente de facto di 8’174 euro annui, che porterebbe grandi vantaggi ai redditi più bassi, di fatto sgravandoli ulteriormente e portando anche ai redditi maggiori un vantaggio che compenserebbe il mantenimento dell’aliquota marginale più elevata.

A questo si potrebbe aggiungere un moltiplicatore comunale che sostituirebbe le addizionali comunali e la TARI una volta inserito il valore degli immobili di proprietà in dichiarazione dei redditi.

Parlando di imprese, mentre l’IRES è già ben strutturata, essendo una flat tax, da quel lato andrebbe sfoltito tutto il contorno di imposte e balzelli che vi gravano, come l’IRAP, ad esempio, o le imposte comunali sugli immobili e la TARI sui rifiuti anche se, magari, si tratta di un’azienda di consulenza informatica che produce meno rifiuti di un single in un monolocale.

Un’idea potrebbe essere quella di applicare anche in questo caso due moltiplicatori, uno comunale che andrebbe a sostituire tutti i balzelli locali e uno regionale che sostituirebbe l’IRAP semplificando di molto la contabilità fiscale.

Semplificare, questo deve essere il mantra, infatti… al di là di questo semplice esempio qui riportato e non certo esaustivo.

La semplificazione, già da sola, apporta risparmi non indifferenti sia per cittadini e aziende sia per lo stato, dal lato della riscossione e dei controlli, e ogni risparmio è una componente positiva di reddito che, dal lato dello stato significa avere più risorse per abbattere il debito e fare nuovi investimenti, magari proprio nel taglio delle imposte partendo dall’energia che è un asset indispensabile oggi.

Le idee finora abbozzate, perché di questo si tratta cioè di una mera bozza o un esercizio intellettuale, potrebbero essere un’indicazione per un futuro percorso riformista?

Non c’è alcuna pretesa che lo possano essere ma che possano iniziare a far pensare che un altro modello sia possibile e che nulla sia immutabile ma che tutto possa tendere a un miglioramento, cosa che sarà impossibile se non si torni a vivere la Cosa Pubblica e a spronare i propri rappresentanti verso questo obiettivo, questo sicuramente sì.

Gaber cantava “La libertà non è star sopra un albero / Non è neanche avere un’opinione / La libertà non è uno spazio libero / Libertà è partecipazione” e così è.

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