Fabio Ermili è un medico chirurgo specialista in chirurgia. Nel corso della sua carriera, l’esperienza professionale e umana svolta per alcuni mesi in Congo, lo ha segnato.
“Tra il 2010 e il 2011 ho preso parte a Kinshasa a un progetto finalizzato a dare formazione medico chirurgica presso l’ospedale Monkole. Obiettivo era quello di insegnare ai medici del posto a lavorare in maniera corretta, trasmettendo non solo tecniche chirurgiche e metodologia del lavoro per renderli autonomi, ma anche l’etica del lavoro”.
La storia dell’ospedale Monkole
L’Ospedale Monkole (la parola si riferisce all’albero che nella tradizione congolese dà rifugio e protezione, ma ha anche proprietà terapeutiche, taumaturgiche) svolge non solo attività di tipo medico assistenziale ma anche sociale; oltre alla struttura ospedaliera, in alcune realtà periferiche sono stati creati tre poli distaccati, le “antenne” dove si fa anche assistenza ed educazione sociale, rivolta specialmente alle bambine.
Questo complesso è nato nel 1991 per iniziativa di un medico congolese legato all’Opus Dei, Leon Tshilolo; laureato in Italia, specializzato in Belgio, Tshilolo è tornato poi nel suo Paese e, esortato e incoraggiato dal venerabile don Alvaro Del Portillo, ha avviato quello che inizialmente era un day hospital materno infantile. Pian piano l’opera è cresciuta, anche grazie a contributi di privati e istituzioni. Oggi Monkole è un ospedale vero e proprio.
“In Congo non esiste una sanità pubblica – racconta ancora il dottor Ermili – ma al Monkole si cerca di erogare una sanità etica. Ci sono diverse fasce di pagamento, chi non può pagare riceve assistenza pressoché gratuita, mentre chi ha un reddito e può permettersi le cure paga.
Monkole è nato come un piccolo ambulatorio medico a seguito dell’espandersi della città di Kinshasa, sulla scia dall’emigrazione interna di persone che si spostavano per fame, guerra, o per una vita migliore. Questi flussi migratori interni pian piano hanno colonizzato le colline intorno a Lagombé, il nucleo storico della città coloniale belga e sono nati via via agglomerati di baracche.
A Kinshasa ci sono interi quartieri sorti dal nulla, come formicai fatti di baracche di latta, senza servizi, senza fogna, senza acqua. C’è una grande promiscuità, la maggior parte delle persone non muore di vecchiaia, ma di malattie infettive. Prima tra tutte la malaria, ma una gran parte della mortalità è da ascrivere anche alle tossinfezioni alimentari, alle infezioni polmonari, alla tubercolosi e, non ultimo, all’AIDS. Il Congo vive una realtà simile alla nostra situazione sociosanitaria alla fine dell’800, primi 900”.
“Il nuovo Monkole – spiega Fabio Ermili – è un edificio di quattro piani molto grande e bello, dove si opera con criteri all’occidentale.
Si è cercato di puntare l’attenzione non solo alla metodologia tecnica, ma anche a un’etica del lavoro; ad esempio le cucine sono cucine come noi immaginiamo in un moderno ospedale europeo. Basti dire che in genere in Congo il malato non ha diritto al pasto… Presso il Monkole c’è anche una scuola di infermieri, l’ISSI, dove si insegna secondo i modelli del Campus Biomedico di Roma. I medici europei vanno a Monkole a titolo gratuito, nelle loro ferie, per portare la propria esperienza professionale e trasmettere una sana filosofia del lavoro”.
Il senso di un’esperienza umana in Congo
“Le esperienze che ho vissuto a Kinshasa mi hanno segnato e ho imparato ad apprezzare le piccole cose, come un sorso d’acqua. Infatti nell’Ospedale di Monkole avevamo un pozzo artesiano a 90 mt di profondità. La sera si radunava alle porte del nosocomio una fila di bambini e il guardiano li faceva entrare a piccoli gruppi; arrivavano dalla boscaglia e prendevano l’acqua.
Bambini gracili con gambette esili che trascinavano taniche di acqua più grandi di loro; vedere questo ti dà l’idea che spesso noi viviamo di superfluo. Certo, non possiamo fustigarci, noi siamo nati qui e viviamo in altre condizioni, ma il Congo mi ha insegnato l’importanza delle piccole cose quotidiane. Là ho visto incarnarsi il messaggio dell’Opera: fare bene le cose a cui siamo chiamati nel quotidiano si traduce in una realtà effettiva ed effettuale”.