“In quest’ultimo periodo della mia vita sto pensando molto a una frase di San Francesco. Il santo poverello diceva che ‘si riceve tanto dalla vita solo dando tanto'”.
Lo racconta a In Terris Enrico Vanzina, noto sceneggiatore, produttore cinematografico e regista italiano, primogenito del regista e sceneggiatore Steno e di Maria Teresa Nati, nonché fratello del regista e produttore Carlo Vanzina. Carlo si è spento nel 2018 a 67 anni dopo una lunga malattia. Un sodalizio artistico e di vita, quello dei fratelli Vanzina, durato una vita. Enrico, nella decennale carriera, è stato autore di oltre cento sceneggiature. La sua prima sceneggiatura è quella di Luna di miele in tre del 1976, seguita nello stesso anno da Febbre da cavallo, con l’indimenticabile Gigi Proietti.
Enrico e Carlo, un sodalizio durato una vita
Ma è assieme al fratello regista Carlo che scrive sceneggiature diventate cult della commedia all’italiana quali: Sapore di mare, Il pranzo della domenica, Eccezzziunale… veramente, Vacanze di Natale, Yuppies – I giovani di successo, Le finte bionde, Sotto il vestito niente, Via Montenapoleone, Il cielo in una stanza, Ex – Amici come prima!, Mai Stati Uniti e Non si ruba a casa dei ladri.
Ha inoltre prodotto molti programmi televisivi, tra cui le serie I ragazzi della 3ª C (1987-1989), Amori (1989), Anni ’50 (1998), Anni ’60 (1999) e Un ciclone in famiglia (2005-2008). Nonostante la pandemia, nel 2020 ha debuttato alla regia con il film “Lockdown all’italiana”. L’intervista – come il film – parte proprio dall’arrivo del covid nella vita degli italiani.
Dottor Vanzina, come ha vissuto questo ultimo anno segnato dalla pandemia?
“Non mi sento diverso dagli altri: ho provato smarrimento, preoccupazione e anche timore considerando la mia età [è nato a Roma il 26 marzo 1949, ndr] anche perché non sono più un bambino. Ho vissuto con grande angoscia soprattutto il destino delle persone che lavorano con me, nella mia azienda. E’ stato un periodo travagliato da sentimenti di speranza e di rassegnazione: sono una persona umana. Il tipo di lavoro che faccio io, e il mondo dello spettacolo in generale, è molto penalizzato da quello che sta accadendo. Il covid ha bloccato tutto: cinema, teatri, musei, concerti musicali. Le grandi compagnie che hanno alle spalle capitali importanti riescono a resistere. Ma per le case di produzione indipendenti stare ferme due anni è terribile, taglia completamente le gambe. Ad altri settori, come quello della ristorazione, è stato permesso di riaprire seppur parzialmente; noi siamo stati dimenticati. Eppure, la cultura non è un aspetto secondario della vita delle persone”.
In che senso?
“Mai come in questo momento così complesso si è evidenziato l’importanza dei racconti, anche per immagini. Le persone – dovendo restare a casa – hanno visto molta più televisione del solito. Questo è servito a far divagare, ad emozionare e a far riflettere la gente. Il cinema ha dunque un valore sociale importante. E mai come ora è tornato centrale nella vita delle persone. Eppure, è uno dei settori più trascurati dalle misure del Governo: questo è paradossale!”.
Il cinema sopravviverà alle piattaforme streaming?
“Sì. Nonostante ora ci siano le piattaforme streaming che offrono una moltitudine di prodotti con un costo mensile risotto, sono sicuro che il cinema si reinventerà in positivo per (ri)conquistare il suo spazio. Probabilmente, offrendo lavori di grande qualità e di maggior interesse per il pubblico. Il cinema è sopravvissuto all’avvento della televisione, sopravviverà – ma cambiando necessariamente in meglio – anche alle piattaforme”.
Lei ha una lunghissima carriera nella commedia all’italiana. I suoi film sono spesso definiti “cine-panettoni”. E’ d’accordo con questa definizione?
“La definizione cine-panettone mi fa onestamente orrore, perché in realtà in oltre 80 pellicole prodotte, di cine-panettoni ne abbiamo fatti – io e mio fratello Carlo – solo 3, rimasti impressi nell’immaginario collettivo. Ma anche per i cosiddetti cine-panettoni bisognerebbe fare un distinguo: un conto è se hanno uno sguardo sulla realtà del momento; un altro se invece trattano solo di piccole farse ambientate una volta in America, una volta in Cina e una in Brasile, ad esempio”.
Cosa rappresenta per lei dunque la commedia all’Italiana?
“La vera commedia all’italiana osserva il nostro Paese e, con 5 minuti di anticipo, fotografa vizi e virtù degli italiani. Con una risata ti fa comprendere meglio il periodo che stai vivendo! Questo grande legame con la commedia all’italiana non lo vorrei mai perdere, nonostante io non sia più giovanissimo e potrei dire ‘quel che ho fatto, ho fatto’, ma invece spero di continuare…”.
Ha un invito da fare ai giovani sceneggiatori e registi italiani?
“Sì, inviterei i giovani a non tralasciare la commedia all’italiana. Il tema della commedia è un tema importantissimo, una colonna portante del nostro cinema. Credo che il nostro Paese sia stato raccontato molto meglio dalla commedia all’italiana dal dopoguerra ad oggi che non da tanto teatro e da tanta letteratura a volte un po’ elitaria, altre volte un po’ incomprensibile. La commedia all’italiana è stata la spina dorsale del racconto di questo Paese e si basa su temi generalmente drammatici ma raccontati in maniera lieve. Credo che i giovani di oggi che volessero avvicinarsi al cinema dovrebbero tenere in mente questo: che la commedia è un genere altrettanto degno di un film drammatico, sociale o politico. La commedia ha una forza dirompente che dura molto anche nel tempo”.
Si tratta comunque di una risata agrodolce, come nel suo ultimo film: “Lockdown all’italiana”?
“Sì, dipende anche da come viene fatto il film, dalla trama e spesso dalla bravura degli attori in determinati ruoli”.
Recentemente ho intervistato Lino Banfi che, tra i personaggi preferiti interpretati nella sua lunghissima carriera citava il Commissario Lo Gatto. Lei scrisse la sceneggiatura insieme al regista, Dino Risi. Come mai sceglieste proprio Lino Banfi per quel ruolo?
“L’ispettore pasticcione è un genere specifico della commedia. Scegliemmo Banfi perché lui aveva quel tanto di comicità frammista a umanità. Una comicità tutta italiana che ha permesso di reinventare il ruolo del commissario nella commedia costruendolo a pennello su di lui, sulla sua unicità”.
E’ stata una scelta combattuta?
“No, in effetti è stata una scelta che ci venne in modo naturale. Con Banfi feci anche un altro film, scritto insieme a mio padre: ‘Dio li fa poi li accoppia’ con Johnny Dorelli che aveva il ruolo di un sacerdote e Marina Suma. C’era un personaggio secondario, un salumiere omosessuale. Lo interpretava Banfi e credo sia stato uno dei suoi ruoli migliori perché lo fece con grande umanità e tenerezza, in netto anticipo sui tempi. Allora l’omosessualità era quasi un tabù. Insomma, Banfi – come tutti i grandi comici – hanno dentro un piccolo mondo di malinconia che li rende speciali in tutti i ruoli, non solo comici. E’ una persona molto umana”.
A proposito di grandi artisti, lei ha conosciuto e lavorato molte volte con Gigi Proietti, recentemente scomparso. Che ricordo ha di lui, non solo come attore ma anche come uomo?
“Con Gigi ho fatto almeno quattro o cinque film, compreso Febbre da cavallo, forse uno dei più famosi in assoluto. Un attore centrale nel nostro lavoro. Gigi non aveva avuto molta fortuna con il cinema: all’inizio della sua carriera è andato fortissimo nel teatro ma era stato un po’ bistrattato dai registi cinematografici. Gigi aveva questo rimpianto: si sentiva sotto utilizzato nel cinema. Questo gli dava un po’ di malinconia. Quando a fine carriera abbiamo fatto una serie di film insieme, lui ne era molto contentissimo. Abbiamo avuto un rapporto molto speciale: era grato a mio fratello e me per averlo portato al cinema con grandissimo successo. Di lui resta la simpatia innata, il grande talento, l’intelligenza. Era un uomo che amava molto la sua famiglia, riservato, laico impegnato e rispettoso. Ha dedicato una buona parte della sua vita ad insegnare ai giovani, avendo un talento immenso. Era generosissimo…Insomma, era una persona speciale”.
Come suo fratello Carlo …
“Mio fratello ha fatto il regista ed era una persona molto speciale. Ho scritto un libro su di lui per la Harper Collins, ‘Mio fratello Carlo‘: molto commovente. Lui è stato il più grande dolore della mia vita, ma lo sento vicino tutti i giorni”.
Passiamo al tema centrale, quello della fede. Quanto la fede l’aiuta nella vita quotidiana?
“La fede è stata centrale nella mia vita e lo è ancora. È stata un po’ vacillante, con alti e bassi. Nel momento della morte di mio fratello ha toccato l’apice: ho veramente riflettuto sul senso del prima, del dopo, dell’oggi, della speranza, del mistero, dell’accettazione della vita stessa. La mia fede è uscita rafforzata da quest’esperienza che tutti hanno nella propria esistenza. Il mio caso è un po’ speciale perché ho passato tutta la vita insieme a mio fratello. Lui, tra l’altro, era più giovane di me; e questo è stato un motivo di ulteriore riflessione”.
Cosa pensa di Papa Francesco?
“Nel mio libro ho raccontato che l’ho conosciuto. È stato un momento breve, durato venti secondi. È capitato perché io faccio anche il giornalista e qualche anno fa ho vinto il premio Biagio Agnes [nel 2015, ndr]. Tutti i vincitori del Premio Biagio Agnes sono stati ricevuti in udienza dal Pontefice che ci ha voluti conoscere personalmente. E così, uno ad uno, siamo andati a stringergli la mano. Quando sono arrivato di fronte a lui ho sentito una specie di forza interiore che mi ha spinto a dirgli: ‘Mio fratello sta lottando con la morte, mi aiuti…’. Lui mi ha preso la mano, ci siamo guardati, ho sentito quella stretta, ho sentito l’amore Dio. Il Papa mi ha regalato un rosario che ho portato a mio fratello che già stava molto male. Quel rosario donato dal Papa è restato tra le mani di mio fratello fino alla fine”.