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Recovery fund: perché i soldi promessi ancora non arrivano

La bella canzone fine anni ’60 di Mina “Parole, parole, parole” potrebbe essere un’interessante chiave di lettura per valutare l’operato di questo governo che, in effetti, di parole, promesse e chiacchiera ne fa tante, ma di fatti, purtroppo, assai pochi. Con le decretazioni d’urgenza, i DPCM, i voti di fiducia in Parlamento la democrazia rappresentativa è in agonia e il ruolo dell’opposizione marginalizzato, per non dire oscurato. L’esempio forse più sconcertante lo stiamo vivendo proprio in questi giorni, con la programmazione su come investire il gettito che dovrebbe raggiungere il nostro Paese con il “recovery fund”. Dovrebbe: il condizionale è d’obbligo dopo che a luglio ci erano stati garantiti 209 miliardi, ma oggi l’eterna lite fra Paesi “frugali” e non, pone il serio dubbio se questi soldi arriveranno, quando arriveranno e, soprattutto, a quali condizioni.

Una cosa è certa: non si intravvede nessun serio programma di investimenti, si sentono continui slogan e frasi fatte, e non mancano silenzi e segreti, che – assai probabilmente – servono solo a nascondere un totale pressapochismo, orfano di idee. Quando si vive in emergenza, saggezza vorrebbe di mettere sul tavolo tutte le necessità e discuterne con tutti, governo, maggioranza e opposizione, avendo come obbiettivo il vero interesse del nostro Paese. Non fu questa la strategia adottata nel 1947/48 dal governo De Gasperi di fronte al cosiddetto “piano Marshall”? Gli stessi uomini della Costituente, da destra a sinistra, seduti attorno ad un tavolo, individuarono alcuni nodi essenziali per la ripresa post-bellica del nostro Paese e – guarda caso – ieri come oggi, si capì che lavoro, famiglia, sanità e scuola erano voci prioritarie per la ricostruzione.

In questi mesi abbiamo ascoltato tuttologi e politici di ogni caratura ripetere che questa pandemia ha prodotto dissesto umanitario e sociale paragonabile al dopoguerra: non so se sia proprio vero, ma è certamente vero, perché è sotto gli occhi di tutti, che l’attuale risposta di chi ha il dovere di governare è simile ad un lumicino in confronto alla luce progettuale di quegli anni. Come detto, non mancano parole e promesse. Mancano i fatti. Nei suoi numerosi discorsi riguardanti la destinazione del “ricovery fund” il Premier ha, qualche volta, timidamente pronunciato la parola “famiglia”, utilizzata come un inciso che non si poteva non menzionare, ma da lasciare all’ultimo posto nella lista dei provvedimenti concreti da attuare. Le famiglie italiane hanno sussultato di gioia nel sentire parlare di “Family Act”, di quoziente familiare, di assegno universale: nel recovery fund non una riga. E’ come andare a comprare un paio di scarpe perché non si può camminare con le suole bucate, vedere una bella scatola allettante, aprirla e scoprire che dentro non c’è nulla. Che delusione! Ma anche, che rabbia!

Tutti ricordiamo lo slogan dei primi DPCM: “Non lasceremo indietro nessuno”. Anche queste, parole, parole, parole. Prendiamo la scuola, altra pagina vergognosa di questa cosiddetta ripresa. Chiunque ha figli a scuola, di ogni ordine e grado, tocca con mano ogni giorno il regno incontrastato del pressapochismo, con norme, allarmi, divieti, annunci che si susseguono, spesso in contrasto fra loro. Sarà un caso, ma le uniche scuole che stanno funzionando sono le pubbliche paritarie, quelle sopravvissute all’indecente abbandono voluto soprattutto da PD e M5S circa gli aiuti economici – prima promessi (sempre a parole!) e poi negati – che dovevano garantire il diritto alla libertà educativa delle famiglie (legge 62/2000). E pensare che un alunno nelle paritarie costa in media cinquemila euro/anno, mentre un pari alunno nelle statali costa 8.500 euro/anno! Un semplicissimo strumento che si chiama “costo standard di sostenibilità per alunno” metterebbe a posto ogni disparità e diseguaglianza, con l’aggiunta di un risparmio enorme (parliamo di miliardi!) da parte dello Stato. Perché non si fa? Chi non comprerebbe a minor spesa un servizio buono e uguale per tutti? La risposta non può che essere una sola: perché l’ideologia statalista è priva anche del più elementare buon senso e vuole le sue vittime, e le scuole paritarie, in larga misura cattoliche, sono la vittima per eccellenza. Insieme alla famiglia.

L’elenco delle assurdità si arricchisce di ora in ora di nuove “perle”. Mentre migliaia di bimbi disabili non hanno insegnanti di sostegno, mentre le classi funzionano a singhiozzo per mancanza di docenti, mentre migliaia di mamme devono giocarsela fra lavoro e didattica a distanza, che fa il governo? Approva il finanziamento di quattro milioni di euro per la “realizzazione su tutto il territorio nazionale di centri contro le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere” e garantisce la copertura pubblica per le spese necessarie ad organizzare “cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile … in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado”. Indottrinamento di Stato, con soldi pubblici. Mentre la maggioranza PD/M5S trascina in Parlamento – impegnato a scrivere niente meno che la legge di bilancio – il più illiberale, liberticida, antidemocratico e inutile progetto di legge della storia della Repubblica, firmato Alessandro Zan (PD) sul cosiddetto reato di omofobia. La confusione regna sovrana, la menzogna trionfa ma le bugie – si sa – hanno le gambe corte e i cittadini non dimenticano.

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