Il primo aprile scorso anche Singapore, la piccola Città Stato, isola al Sud della Malesia, è stata chiusa per il lockdown imposto dall’emergenza sanitaria creata dal Coronavirus. Solo venerdì scorso, 19 giugno, le misure restrittive più rigide sono cadute ed anche i singaporensi lentamente stanno tornando alla loro quotidianità. Non era la prima volta che Hong Kong e Singapore si confrontavano con un’emergenza sanitaria e questo ha dato loro qualche possibilità in più nella gestione della pandemia: hanno fatto tesoro dei piani anti pandemia sviluppati nel 2003, quando furono colpite dalla SARS. In più hanno un territorio circoscritto con pochi confini di terra, che rende più semplice controllare i movimenti in entrata e in uscita, e hanno una gestione singola e centralizzata che evita i dissidi tra governi e autonomie che si possono osservare per esempio in Italia, Spagna e Stati Uniti. Soprattutto, entrambe le realtà asiatiche nutrono, da tempo, una grande fiducia nella scienza: la cultura scientifica è consolidata e presente in ogni decisione politica.
La reazione di Singapore al virus nella testimonianza di Theodor Stateff
La testimonianza di Theodor Stateff
Quali sono state le principali misure restrittive?
“Principalmente le stesse del resto del mondo, dovevamo stare a casa, ma ci sono stati molti più controlli nei luoghi pubblici come nei supermercati dove le persone non potevano assolutamente intrattenersi a parlare, le frontiere sono state chiuse subito ed ancora oggi ci sono molti cittadini singaporensi che non riescono a rientrare. Noi italiani siamo tutelati dal nostro consolato che ci ha permesso di tornare a casa in qualsiasi momento, ma fatto questo passo non sappiamo quando potremmo tornare a Singapore. Fino ad ora solo il 7% delle richieste fatte per rientrare a Singapore sono state accettate, pochissime rispetto al numero elevato di richieste”.
Come si vive normalmente a Singapore?
“Singapore è una città costruita per far si che tutti si possano sentire a casa, è una Città Stato molto piccola, un’isoletta al sud della Malesia con 5 milioni di abitanti che però data la sua posizione strategica, rappresenta un porto per tutti gli scambi commerciali che avvengono in questa regione. Ha rappresentato da sempre un luogo in cui tutte le culture del mondo si fondono e questo ha reso la mentalità di Singapore molto aperta. Però c’è sempre un trade-off tra sicurezza e libertà, perché comunque qui vigono regole molto più severe, dovute alla mentalità asiatica più rigida della cultura Europea, e si percepisce che qualcosa manca rispetto alla libertà a cui siamo abituati”.
Come sono viste l’Italia e l’Europa da un paese così lontano?
“Qui non si è mai fatto un discorso Italia. Da Singapore si guarda all’Europa con un’attenzione particolare, per certi versi però è vista come un modello da non prendere perché è stata percepita come quella parte del mondo che ha riaperto con dei focolai ancora attivi in giro, mentre Singapore non vuole riaprire finché non ci sarà la massima sicurezza”.
Cosa è cambiato con la fine del lockdown lo scorso 19 giugno?
“Venerdì ci hanno letteralmente liberati. Le regole sono cambiate molto è c’è una differenza sostanziale rispetto a quella che era la vita prima dell’emergenza Coronavirus, ma già poter rivedere volti amici, dopo tre mesi di isolamento è un qualcosa di meraviglioso. Ora possiamo andare al ristorante in gruppi di massimo cinque persone, si possono invitare persone a casa, si può giocare a basket nei campetti all’aperto e anche a beach volley, altre attività invece sono rimaste bloccate, per esempio, non si può giocare a biliardo. La mascherina la devi mettere ma solo se vai a fare la spesa o attività del genere, ma nei bar e ristoranti non la si deve tenere. É una lenta ripresa verso la realtà, come nel resto del mondo”.