Ho letto un’intervista fatta dal neo presidente di Confindustria Carlo Bonomi e vi ho trovato spunti interessanti, come affermazioni forse un po’ trancianti. È sempre importante comprendere la visione di una persona che dovrà esercitare un ruolo di primo piano insieme ad altri, consapevoli come dovremmo essere che dal loro agire, in parte, dipenderanno le sorti economiche del Paese. Credo che chiunque abbia a cuore le sorti del lavoro italiano, non può che auspicare a che le parti sociali riprendano la loro iniziativa di rinnovamento delle relazioni industriali orientate ad una maggiore redistribuzione della ricchezza prodotta in più, da produzioni in crescita di qualità e quantità.
Va da se che le loro attività contrattuali non riguardano solo il loro ambito pur dovendo svolgersi nella loro necessaria autonomia, ma attengono anche le prospettive della economia. Infatti la condizione economica può essere positivamente condizionata dalle grandi organizzazioni del lavoro – dei lavoratori e delle imprese – se dovessero riuscire, come spesso si è verificato nella storia economica italiana, a legare i loro legittimi interessi anche a quelli generali. Bonomi ha accennato in modo interessante ad un tema che spesso ha originato fraintendimenti che nel tempo non hanno fatto bene al Paese: l’idea che la selva sterminata di piccole e piccolissime imprese, non rappresenti una debolezza che alla lunga ci possa emarginare nei grandi giochi presenti nei mercati globali. Infatti le piccole imprese prosperano in un ambito che veda agire grandi aziende competere nei mercati mondiali: da sole soffocherebbero per incapacità a tenere il passo con l’innovazione per scarsità di capitali per difficoltà ad investire nella innovazione così decisiva per il successo. Il neo-presidente di Confindustria si è anche pronunciato sulla contrattazione e credo che abbia sottolineato che il salario non può crescere che dalla maggiore produttività da suscitare per poterlo redistribuire attraverso la maggiore ricchezza riveniente dal successo dei prodotti nel mercato.
Sono convinto che su questo punto abbia molta ragione da vendere. Questa semplice impostazione era già valida in altre epoche; in questa vale dieci volte in più, sia per ridare forza alle aziende indebolite certamente dalle interruzioni dell’offerta provocate dal lockdown, sia per riassorbire le crisi mai curate dell’ultimo ventennio, a causa del peggioramento per incuria di tutti i fattori di contesto per le nostre produzioni industriali e di servizi. Tasse, energia, servizi, infrastrutture e logistica, giustizia e pubblica amministrazione, hanno condotto ad tale peggioramento le attività economiche per il loro costo ed inefficienza che hanno provocato in modo preoccupante la crescita del costo per unità di prodotto, che non ha pari al confronto con i Paesi Ocse.
Dunque, se dobbiamo risalire la china non abbiamo altra scelta che lavorare di più e meglio per favorire una attraente offerta nei mercati, e poi attraverso la redistribuzione della ricchezza prodotta ed alimentata ancor più da riduzioni fiscali sul salario, ad accrescere la domanda nel mercato interno. D’altronde la contrattazione funziona eccellentemente quando le parti concorrono a regolare politiche contrattuali convenienti per ambedue i soggetti. Tant’è che quando fanno il contrario, alla lunga arrecano danni alla loro soggettività, rappresentatività ed autonomia, non garantiscono gli interessi generali.