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Capaci, la memoria insanguinata. Sabella: “La nostra generazione ha fallito”

Ventotto anni fa l'attentato che uccise il giudice Falcone, sua moglie e tre agenti della scorta. A Interris.it il ricordo del magistrato siciliano, già sostituto procuratore del pool Antimafia di Palermo: "Oggi l'arma delle mafie è il denaro. Non va sottovalutato il fenomeno della corruzione"

E’ una sensazione strisciante di disagio. Quasi si fosse troppo piccoli di fronte al male che gli uomini sono in grado di fare ad altri uomini. E anche di fronte alla grandezza di chi, mettendo in gioco la propria vita, scelse di contrastare fino in fondo quella ferocia. E’ come se l’asfalto di Capaci non avesse mai smesso di fumare, sprofondato sotto la violenza del tritolo che Cosa nostra decise di innescare contro il giudice Giovanni Falcone. Poco lontano, sulla montagna dove fu premuto il pulsante fatale, campeggia un “No mafia”, giusto dietro l’obelisco che ricorda il luogo della strage. Un mantra posto per le generazioni di oggi e quelle di domani, che Falcone lo conosceranno anche attraverso quel monumento, depositari forse inconsapevoli di una memoria che, come italiani, ognuno di noi ha il dover di far rimanere viva. Non solo di farla sopravvivere.

L’eredità di Capaci

E’ una differenza decisiva. Perché torna ogni anno quel 23 maggio, e non importano i 28 anni trascorsi dal massacro del magistrato palermitano, di sua moglie e dei suoi uomini di scorta. La strage di Capaci, così come quella di Via D’Amelio, posteriore di soli due mesi, rappresentano un monito perenne, giorni insanguinati che, forse per la prima volta, fecero capire allo Stato italiano che indietro non si sarebbe più tornati. Non più una sfida, ma una vera e propria dichiarazione di guerra che la mafia lanciò alle istituzioni del nostro Paese, apice atroce di una scia di sangue iniziata ben prima della primavera-estate del ’92. Una battaglia contro il male occulto della nostra terra, che di lì in poi sarebbe stata condotta con più determinazione, con mezzi più efficaci di quelli che ebbero a disposizione straordinari uomini di Stato come Falcone e Borsellino: “Io mi sono trovato a contrastare Cosa nostra a Palermo – ha raccontato a Interris.it il magistrato Alfonso Sabella, già sostituto procuratore del pool Antimafia di Palermo -. Nel dopo-stragi lo Stato ci ha messo a disposizione ogni risorsa possibile e immaginabile. Se questi stessi strumenti li avessero avuti a disposizione Falcone e Borsellino, oggi che Paese racconteremmo?”.

Il messaggio di un’estate di sangue

Un quesito decisivo, che probabilmente accomuna non solo chi combatté la ferocia della mafia negli anni delle stragi, ma anche chi visse quei giorni da cittadino, fra la paura e quelle speranze che rischiarono di naufragare dinnanzi al sangue versato: “Noi eravamo dei semplici ‘apprendisti stregoni’, non avevamo la loro conoscenza e capacità eppure siamo riusciti a fare cose straordinarie. Immagino cosa avrebbero potuto fare loro se avessero avuto gli stessi strumenti che lo Stato, con colpevolissimo ritardo, ha consegnato a noi. Oggi avremmo un Paese migliore e probabilmente a raccontarcelo sarebbero proprio loro. Questa è una domanda che continuo a pormi, a chiedermi perché quelle stesse risorse non siano state messe a loro disposizione”. Per questo, a quasi trent’anni di distanza, le nuove generazioni hanno il diritto di ascoltare la storia di quei giorni, di comprendere appieno il sacrificio compiuto e l’insegnamento lasciato affinché la stessa coscienza collettiva divenisse uno strumento di contrasto alla criminalità organizzata: “Credo che su questo, il messaggio che viene da quella maledetta primavera-estate del ’92 sia ancora forte. Il problema è renderlo noto, farlo conoscere alle nuove generazioni. Molti di loro non erano nati, avranno studiato sui moderni libri di storia o ne avranno sentito parlare distrattamente. Credo che il compito della mia generazione sia quello di far vivere sempre questa memoria.

L’indomani delle stragi

La pietra d’angolo per le generazioni di oggi, non è solo il lavoro svolto dai magistrati ma anche quanto accadde dopo quella stagione di sangue: “Il nostro è un Paese molto strano, che non impara dai propri errori e nemmeno dai propri successi. La stagione che è seguita alle stragi è stata straordinaria per questo Paese: lo Stato ha mostrato i muscoli, ha mandato i suoi uomini migliori dotandoli di tutti gli strumenti normativi e tecnici per dare un colpo a quella mafia stragista che oggi, fortunatamente, sembra non esserci più. Dico ‘sembra’ perché lo stragismo fa parte del patrimonio genetico delle mafie. In questo momento si stanno accontentando di tentare di comprarselo lo Stato piuttosto che contrastarlo, e quindi sembrano apparentemente non arrecare un grande problema per l’ordine e la sicurezza pubblica, anche se il rischio, soprattutto dopo la crisi economica del coronavirus, è che possano mettere in campo una liquidità che manca all’economia legale, trasformandola in illegale”.

Un Paese libero

Accontentarsi delle nozioni dei libri di storia? Per i ragazzi del 2020 potrebbe non bastare, nonostante “il sacrificio di Falcone, Borsellino e degli uomini che cercarono inutilmente di proteggerli e di cui troppo spesso non si fa il nome, è qualcosa che ancora oggi colpisce i nostri ragazzi”. C’è un altro nodo fondamentale: “Abbiamo avuto dei grandi successi nel contrasto alle mafie, ancora oggi riusciamo a ottenere degli ottimi risultati, conosciamo le mafie e il loro modo di muoversi e di agire. Ma la nostra generazione ha fallito nel momento in cui non siamo riusciti a consegnare a quelle nuove un Paese libero dalle mafie”. Le quali, negli anni, hanno diretto il loro operato su altri strumenti: “Molto spesso ho insistito sul tema della corruzione: il denaro è diventata la nuova arma delle mafie. Oggi magari sparano di meno, anche se il modo di risoluzione dei loro conflitti prevede ancora l’omicidio, la soppressione dei diritti umani, la violenza… però preferiscono utilizzare il denaro per mediarli. La nostra generazione non è stata in grado di consegnare un Paese libero dalla corruzione e dal malaffare. Ora il testimone passa alle nuove ma devono inevitabilmente conoscere il passato, dove lo Stato è riuscito a vincere e dove ha fallito, facendo in modo che gli errori non si ripetano più”.

Autonomia e indipendenza

Le stragi del ’92 rappresentarono il punto di non ritorno di una guerra iniziata almeno un decennio prima: “La mafia aveva iniziato a sfidare lo Stato già a metà degli anni Ottanta, ricordiamo gli omicidi Cassarà, Dalla Chiesa, Mattarella, La Torre… La mafia dei corleonesi si è fatta avanti a colpi di kalashnikov, annientando i rivali palermitani dei Bontate, degli Inzerillo e dei Badalamenti, ma anche cominciando ad attaccare lo Stato. E nonostante le decine e decine di morti che abbiamo lasciato sulle strade palermitane, ci sono volute le due stragi di Capaci e Via D’Amelio perché lo Stato avviasse un’azione repressiva nei confronti di Cosa nostra”. Quello che dobbiamo raccontare ai nostri ragazzi, “è che Falcone e Borsellino la mafia ha iniziato ad ucciderli molto tempo prima e lo Stato era perfettamente in condizione di accorgersene senza di fatto aver fatto nulla. Aveva lasciato isolati quei giudici. Oggi ci sono polemiche sulla magistratura ma ricordiamoci di cosa fecero a Falcone. Io mi onoro di essere uno dei pochissimi magistrati italiani che non ha rapporti con le correnti. Quando ero un ‘giudice ragazzino’, avevo frequentato un paio di volte la corrente del Movimento per la giustizia. Nel momento in cui a Falcone fu negata, anche con una certa umiliazione, l’elezione al Csm, capii che se volevo fare il magistrato dovevo farlo con la massima autonomia e indipendenza”.

Un male sottovalutato

Comprendere gli errori, ricostruire un tessuto sociale migliore attraverso l’esempio di coloro che lo fecero nel momento in cui significava mettere in gioco la propria vita. Un mandato doveroso, anche se non semplice da assolvere: “I nostri ragazzi imparino affinché la loro generazione sia in grado di consegnare a quelle future una terra libera dalle mafie, dall’oppressione e dalla corruzione. Non sottovalutiamo questo aspetto perché le mafie usano oggi questo strumento, la loro potenza economica più che quella militare, di cui possono fare a meno al momento. Lo Stato, invece di sfidarlo, se lo possono semplicemente comprare. Un pericolo enorme ma che mi sembra troppo sottovalutato dalla politica”.

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