Jacopo ha deciso di descrivere ad Interris il suo spaccato di vita dopo aver letto il nostro articolo “Io nel girone degli ammalati di Coronavirus”. Un’intervista a Chiara , infermiera di un reparto di rianimazione Covid-19. “Le parole dirette, intense, quasi laceranti di Chiara sono state per me più dolorose di una pugnalata, perché io vivo ogni giorno questa situazione terribile, sia pure dietro le quinte e da un’altra prospettiva non meno angosciosa e non meno sofferta. E in Chiara, nei suoi occhi azzurri sgomenti ma coraggiosi io ho visto la mia fidanzata”, così inizia il racconto di Jacopo.
Il racconto
“Sì. Anche la mia fidanzata è infermiera di Terapia Intensiva Covid-19, esattamente come Chiara. Per motivi di lavoro viviamo in regioni diverse e distanti. Non la vedo, non la abbraccio, non la bacio da oltre due mesi. Passo le mie interminabili e inutili giornate chiuso in casa, con il cuore in gola, in attesa di un suo messaggio o di una sua telefonata. Ogni tanto riusciamo a vederci con Skype e io guardo con infinita tristezza il suo volto sempre più stanco e devastato dai segni della mascherina che le morde la pelle. E quando vedo quei tagli, quelle lesioni, non posso non pensare alle ferite che ha dentro, e che si porterà dietro forse per sempre. Perché le ferite invisibili a volte sono assai più dolorose di quelle esterne. Le ferite sul viso guariscono, ma nessuno potrà far cicatrizzare il ricordo del dolore, della paura, della tristezza che la mia compagna ha dentro, e temo che neppure io, nonostante l’amore che ci lega, ci riuscirò”.
Gli abbracci perduti, l’amore a distanza
“Vorrei correre da lei, stringerla forte alla vita come facevamo quando andavamo a passeggio la sera, in un periodo vicino nel tempo ma lontanissimo nel ricordo come una remota era geologica. Vorrei guardarla negli occhi, in quei suoi occhi azzurri luminosi e a volte un po’ sbarazzini, vorrei regalarle almeno un sorriso, uno di quei sorrisi che lei mi rivolgeva quando era contenta, ma non posso. Posso solo attendere la sua telefonata ogni sera, e ascoltarla in silenzio mentre racconta”.
I racconti dall’inferno, la guerra al Coronavirus
“Mi racconta di turni che non finiscono mai, sei, otto, dodici ore, notti che sembrano eterne; mi racconta dell’immane fatica fisica, dello sforzo di non svenire, dello scafandro pesantissimo, della mascherina che non la fa respirare, della visiera, degli occhiali che si appannano e non possono essere toccati, della impossibilità di mangiare, tossire, andare al bagno. Mi racconta degli occhi sgranati dei malati in asfissia, mi racconta delle persone che vengono sedate prima dell’intubazione e che le chiedono se si risveglieranno mai, di uomini e donne che muoiono da soli, del terrore di non respirare. Mi racconta dell’enorme sforzo fisico suo e dei suoi colleghi nel ‘pronare’, come dice lei, i pazienti intubati per metterli a pancia in giù perché forse ventileranno un po’ meglio. Mi racconta di pazienti ai quali si possono offrire solo terapie palliative perché non ce la faranno, e vengono accompagnati verso la fine in modo che non soffrano. Mi racconta di salme messe un sacco e portate via, senza un parente, senza una persona cara accanto, nel loro ultimo viaggio verso un forno crematorio, e tornare a casa come un mucchio di cenere in un’urna. Mi racconta di TAC sconvolgenti, di polmoni devastati dal virus, del silenzio totale della terapia intensiva rotto solo dal sibilo delle macchine, mi racconta delle persone che muoiono in un modo inimmaginabile, mi racconta della paura di contagiarsi e di finire dall’altra parte. Mi racconta dei dispositivi di protezione che scarseggiano, del timore che prima o poi non ci sia più ossigeno per tutti, di suoi colleghi che mancano perché si sono contagiati a loro volta”.
La forza del personale sanitario
“Torna a casa e riesce a parlarmi al telefono solo con un filo di voce. Torna a casa e piange. Torna a casa, mangia qualcosa di corsa, sempre che riesca a mangiare, e si getta stremata su un divano senza neppure spogliarsi. E il giorno dopo deve rientrare in turno, perché ‘domani è un altro giorno’, come mi ripete per tranquillizzarmi. E nonostante tutto riesce a rimanere serena e forte. Mai una protesta, mai una polemica, mai un accenno al suo stipendio che dovrebbe essere decuplicato. E quando le chiedo perché non lo racconta al mondo, mi risponde che non ne ha la forza, né fisica né morale. Mi dice ‘fallo tu sei vuoi. A me interessa solo di poterti rivedere, dirti che ti amo tanto e ritornare a vivere’. E quando le dico tutta l’ammirazione che io e tanti altri abbiamo per lei, mi risponde ‘faccio solo il mio lavoro’”.
Il dolore del compagno di vita
“E io passo così le mie ormai vane giornate, in un lentissimo scorrere di ore vuote, senza un senso e senza uno scopo, fissando per ore un muro e aspettando sue notizie, sobbalzando ad ogni squillo del telefono, vagando per la casa con l’unico pensiero di lei, galleggiando inerte nella mia totale inutilità. Neppure la notte mi porta un po’ di sollievo, perché mi sveglio all’improvviso pensando a lei che è di turno in quel inferno, e mi illudo che il mio pensiero possa raggiungerla e farle compagnia”.