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Non siamo i padroni della vita e della morte

Siamo nel mezzo di un ciclone che porta il nome di “pandemia SARS-COVID 19”. Quasi ogni sera il Presidente del Consiglio con molta pacatezza ci invita a condotte personali e sociali che nessuno degli italiani nati dopo la seconda guerra aveva mai conosciuto e che, altrettanto certamente, non avrebbe mai pensato. Forse, chi è nato prima ha memoria dei coprifuoco, dei bombardamenti, delle corse nei rifugi, delle sirene … ma quanto stiamo vivendo in questi giorni è una triste novità per tutti.

Non abbiamo rifugi sicuri, non abbiamo una contraerea che possa abbattere il nemico, il coprifuoco è continuo da settimane e non se ne vede la fine. Soprattutto non conosciamo dove sta il nemico e quando non si ha un bersaglio certo è impossibile colpirlo al cuore. Come se non bastasse, il nemico è “invisibile”: se ne vedono gli effetti letali, si vede la sua opera malefica, ma lui è dannatamente irraggiungibile. Come per tutti i virus non abbiamo terapie specifiche in grado di ucciderlo, è un virus “nuovo” e ciò significa che anche l’unica arma efficace a nostra disposizione, il vaccino, ce l’ha tolta di mano, con la sua terribile velocità di diffusione e contagio. Bontà sua, non è altamente letale, ma comunque non scherza affatto. Lavorando ogni giorno “in prima linea” in ospedale, vedendo l’espandersi dell’epidemia e persone morire, non ho potuto sottrarmi ad alcune considerazioni, che vorrei condividere con chi avesse la benevolenza di leggermi.

Premetto che non ho ricette preconfezionate da vendere e che non è questo il tempo delle polemiche: giudicare da fuori è terribilmente facile almeno quanto è terribilmente difficile operare da dentro e lo sforzo in atto è davvero gigantesco. Vorrei, al contrario, cogliere l’occasione che COVID 19 ci dà con la sua dannata malignità. Vivendo anni di conquiste scientifiche e tecnologiche entusiasmanti, con prospettive di sviluppo ancora più esaltanti, stiamo correndo il rischio di crederci e sentirci “onnipotenti”. Più di un sociologo, da tempo, descrive il nostro tempo contrassegnato da un “delirio di onnipotenza” che – come uno tsunami – sta spazzando via valori, principi, consuetudini, tradizioni e coscienza dei “limiti” sui quali si è costruita l’intera umanità.

Certamente costumi, abitudini, modi di vivere, scelte contingenti possono e devono cambiare con lo scorrere del tempo, ma i pilastri, le fondamenta o i “fondamentali” come va di moda dire oggi, il cemento armato su cui poggia l’umano, non può essere minato o distrutto, pena il crollo dell’intero sistema. COVID ci sta insegnando che non siamo onnipotenti, che non siamo invincibili, che non siamo immortali … In una parola, che non siamo Dio. Il “super uomo” attorno al quale si vorrebbe costruire un “nuovo umanesimo” è un gigante con i piedi d’argilla: un invisibile frammento di acido nucleico ci sta mostrando tutta la nostra impressionante debolezza e fragilità. L’idea che per costruire l’uomo nuovo, arbitro indiscusso di sé stesso, bisogna eliminare Dio dalla storia, con tutti gli orpelli della fede, della religione, della devozione e mandare al macero il crocifisso, sta drammaticamente dimostrando tutta la sua insipiente banalità.

“Senza di me non potete fare nulla” ci ha detto il Figlio di Dio: in questi dolorosi giorni sarebbe utile che ce ne ricordassimo, ricollocandoci nel posto che ci compete. Siamo creature, straordinariamente intelligenti, cui è stata affidata la vita, ma non siamo noi i padroni della vita e della morte. Questo coronavirus – in mezzo a tanto male e dolore – qualcosa di positivo può portare con sé: deve costringerci a fare un salutare bagno di umiltà, riposizionandoci nel quadrante della storia, come servitori della vita, della salute, del bene comune, della solidarietà. Servitori, non padroni.

Aborto, eutanasia, suicidio, droga libera, libertà di autodeterminazione assoluta, fino a pretendere di scegliere il proprio “genere” e allungare le mani sul mistero della procreazione con alchimie da stregoni, non vanno certo nella direzione di chi è chiamato a servire la vita e non a servirsene per soddisfare i propri desideri senza “limiti”. Non lasciamo l’esclusiva del segno di croce ai calciatori quando entrano in campo. Ritroviamo il coraggio di fare quel piccolo gesto come segno pubblico d’invocazione d’aiuto di chi conosce bene la propria debolezza e vulnerabilità e si affida, dunque, a Chi ha sofferto come noi e molto di più di noi, e quella morte che tanto ci spaventa in questi giorni, l’ha davvero vinta. Signori Presidenti della Repubblica e del Consiglio, al termine dei vostri saggi ed illuminanti interventi – per i quali vi siamo grati – accettate un piccolo consiglio: aggiungete una minuscola frase “Che Dio ci aiuti”, un umile invocazione che anche i non credenti sentono in fondo al cuore.  Siate certi che male non fa.

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