“Un mafioso divenuto collaboratore di giustizia parlò di ‘sacerdoti che interferiscono’. Ecco, io mi riconosco in questa Chiesa che “interferisce”, che non smette di ritornare – perché è lì che si rinnova la speranza – al Vangelo, alla sua essenzialità spirituale e alla sua intransigenza etica. Una Chiesa che cerca di saldare il cielo alla terra, perché, come ha scritto Papa Francesco: ‘Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo'”. Don Ciotti non si sente un eroe né un perseguitato, dopo aver saputo che Totò Riina aveva dato il placet per una sua possibile eliminazione fisica; il capomafia di Corleone – intercettato in carcere – parla con Alberto Lorusso: “E’ come don Puglisi, putissimu pure ammazzarlo”. Fin qui la notizia, che ha riempito le pagine di tutti i quotidiani. Poi il coro di solidarietà a uso e consumo della stampa, la finta sorpresa per le intercettazioni, le dichiarazioni di guerra alla mafia. Eppure, a guardare meglio, ci sono una serie di questioni che non tornano e devono far riflettere.
La minaccia non è di oggi, le registrazioni risalgono al 14 settembre 2013. Sono registrazioni di un mafioso che ha ormai finito la sua “carriera” e che sta chiuso in carcere senza possibilità di farsi sentire dall’esterno. Non è il potente boss dei boss, ma un uomo chiuso tra quattro mura per pagare la sua sete di violenza e potere; un malavitoso che oggi chiacchiera passeggiando nel cortile (del carcere) né più né meno come qualsiasi altro anziano. Le sue sono parole in libertà, che hanno indubbiamente un valore storico per la ricostruzione di alcuni anni bui dell’Italia e che potrebbero avere anche un interesse di indagine per la magistratura, ma che spesso sono solo congetture, pensieri sfusi, desiderata pescati nella memoria senza alcun fondamento oggettivo. Il loro posto è lì, chiuse insieme a chi le ha dette. E invece vengono utilizzate per dare ancora forza alla figura del boss; anche se sono parole da subito giudicate impraticabili, anche se vecchie di un anno. E’ solo imbarbarimento mediatico, che fa notizia non proponendo la realtà per come è ma costruendoci ogni volta una “fiction”, oppure sono notizie fornite al servizio di qualche altro obiettivo?
Altro aspetto sul quale riflettere è la corsa a dare a don Ciotti la patente di prete antimafia. Non perché lui non lo sia, ma perché di per sé non c’è nulla di anomalo nel vedere un sacerdote schierarsi dalla parte dei più deboli, di chi subisce la mafia e la vuole combattere; dovrebbe essere il pane quotidiano non solo di un don ma di tutta la Chiesa. L’essenza dell’essere cattolici va in direzione diametralmente opposta al credo dei malavitosi. Eppure ci si sorprende, quasi fosse un caso raro. La domanda da porsi, anche all’interno della Chiesa, è: perché? Se così fosse, e cioè se la lotta all’ingiustizia fosse l’eccezione e non la regola, ci sarebbe da ripensare l’approccio stesso della vita sacerdotale specialmente nelle zone ad alto tasso di criminalità.
C’è infine il discorso della solidarietà. Se da una parte è legittimo che le Istituzioni si schierino contro le pressioni mafiose, dall’altra va sottolineato come l’occasione minacciosa diventi una passerella mediatica un po’ per tutti, sia per coloro che si sono battuti in prima persona nella propria vita professionale e politica, sia per coloro che invece fanno delle dichiarazioni stampa l’essenza stessa del proprio vivere la politica. In questo senso ha fatto bene il “sacerdote che interferisce” ad insistere nelle sue dichiarazioni sulla forza del “noi”, del lottare assieme: “Solo un ‘noi’ – ha detto don Ciotti – può opporsi alle mafie e alla corruzione”. Infine un richiamo alla politica, che “deve fare di più”. E l’invito non è da considerare esclusivo per i Palazzi istituzionali.