Di ebola si muore. Ma finché le vittime sono stipate in Africa – il verbo non è casuale, visto che siamo arrivati già a migliaia di morti – la notizia non prende forma. Certo se ne parla, ma con quell’indifferenza tipica che si dà alle cose che riguardano gli altri, specie se questi sono i poveri del mondo, neri e senza diritti.
Poi improvvisamente la tensione sale, ma non per l’orrore che un numero sempre maggiore di persone che perde la vita tra Guinea, Sierra Leone, Liberia, Nigeria e Senegal dovrebbe provocare; a preoccuparci è l’annuncio di un singolo europeo o un americano contagiati. Nel mondo dell’informazione globale siamo ancora a questo livello: un bianco vale quanto cento neri. Non parliamo di razzismo nel senso stretto del termine, ma di un’assuefazione culturale per cui sembra normale che ciò accada, non disturba la nostra sensibilità, anzi lo riteniamo corretto sotto il profilo della comunicazione.
Il cambio emotivo rispetto alle informazioni che arrivano non è solo una questione di vicinanza geografica: la globalizzazione ha reso nulle le distanze, dalla Sierra Leone al cuore dell’Europa sono solo poche ore di volo. Il punto è che ancora pensiamo all’Africa come un mondo chiuso, immaginiamo i confini come una riserva all’interno della quale qualunque cosa accada non ci riguarda direttamente. Un perimetro – quello del contagio – che a osservarlo sulla cartina dell’Africa assomiglia a un cerchio, come un vetrino di quelli utilizzati nei laboratori dove si manipolano proprio i virus.
Se fossimo complottisti potremmo addirittura spingerci a ipotizzare che la parte più povera del mondo venga utilizzata come “coltura” per sperimentare nuovi farmaci; magari sfruttando quella gente indifesa e debole come cavia per inoculare una malattia sulla quale testare nuove formule chimiche utili successivamente a definire i principi attivi di altri farmaci di largo consumo. E’ un’ipotesi così orribile che sembra fantascientifica.
Di sicuro c’è una mancanza di chiarezza totale sul virus, sulla sua azione, sulle sue conseguenze. C’è un’ambigua informazione di massa per cui tutti sappiamo per grandi linee cosa sia la malattia, ma poi nessuno è messo in grado di percepirne la pericolosità. Qualche articolo di giornale, alcuni approfondimenti, ma nulla che i governi facciano realmente per informare la popolazione. Anzi, ci si affretta a tranquillizzare, giocando proprio sul sentire “lontano” il pericolo. E così il dramma umano di tanti nostri fratelli prosegue nell’indifferenza generale.