Questa mattina una corte speciale di Dhaka ha condannato a morte Motiur Rahman Nizami, capo del partito fondamentalista islamico Jamaat-e-Islami, per crimini contro l’umanità compiuti durante la guerra d’indipendenza del Bangladesh (nel 1971). I tre giudici del Tribunale internazionale lo hanno riconosciuto colpevole di otto capi d’imputazione, tra cui genocidio, omicidio, tortura e stupro. Uno dei procuratori ha commentato la sentenza definendola “riflesso della gravità dei crimini”.
Il governo ha già preso misure di sicurezza straordinarie in tutta la capitale, per timore di scontri e violenze da parte dei sostenitori del Jamaat, come accaduto nel 2013 dopo altri verdetti analoghi. In particolare Nizami, che ha 71 anni, era accusato di aver guidato una milizia, che ha commesso atrocità insieme all’esercito pakistano nelle fasi finali del conflitto. La corte ha spiegato che il politico, considerato anche un leader religioso, ha interpretato male il Corano per incoraggiare i suoi seguaci a condurre un genocidio di massa.
A fine gennaio, Nizami era già stato condannato a morte per traffico d’armi da un tribunale di Chittagong. Pur non esistendo dati certi, durante la guerra di Liberazione dal Pakistan circa 1,5 milioni di civili sono morti e almeno 200mila donne sono state stuprate. Di queste vittime, la maggior parte apparteneva alla comunità indù. Oltre il 60% dei profughi bangladeshi in India erano indù. Alcuni storici credono però che i morti siano stati quasi 3 milioni.