Se paragonassimo la macchina dello Stato a un’automobile non avrei dubbi ad assegnare l’abitacolo alla sanità, la funzione pubblica alla carrozzeria, l’economia al carburante, lo sviluppo economico al motore e la giustizia alla pedaliera, destinata a variare la velocità, ad arrestare la circolazione, a rendere pericolosa la guida o piuttosto a garantire un adeguato viaggio in sicurezza.
Essa necessità di opportuna regolazione e di efficiente manutenzione ma soprattutto di idonea guida ed uso. I palliativi interventi legislativi consistiti in scoordinate riforme cui abbiamo assistito, che abbiamo subito, operatori e fruitori, negli ultimi decenni, sono sintomatici di una sostanziale incapacità tutta politica di assicurare l’efficienza di una componente essenziale del vivere sociale il cui mancato funzionamento rende difficile, talvolta impossibile, il procedere. Inutile ripetere l’ovvio, visibile a tutti; meglio osservare le cause, spesso addossate ai magistrati politicizzati, senza considerare che solo uno sparuto gruppetto ne è protagonista, laddove centinaia di onesti e alacri lavoratori sono vittime di un sistema inadeguato.
Il vero ed unico responsabile è il politico, assente, incapace, compiacente, timoroso delle conseguenze di una giustizia moderna, celere e soprattutto efficiente, che si trincera dietro la immodificabile indipendenza del giudice, protetta costituzionalmente. E ci mancherebbe che si perdesse tale irrinunciabile requisito, alla base di ogni sistema di diritto.
Ma cosa c’entra l’autonomia del giudice con il farraginoso e inadeguato sistema processuale, che dipende da legge ordinaria che il legislatore si rifiuta di riorganizzare con regole chiare, opportune e funzionanti, e revisione del meccanismo dei rinvii reiterati? Ci sono processi che funzionano meglio di altri, quello amministrativo o quello del lavoro ad esempio, rispetto al civile: perché con una semplice legge ordinaria non si uniformano? Perché non si chiariscono le differenti giurisdizioni con elencazione tassativa dei criteri in modo completo, sanzionando di nullità iniziale i processi rivolti a giudice erroneamente adito? Perché non si abbandonano le numerose procedure differenti uniformando il sistema nelle sue grandi direttrici penale, civile, amministrativo e tributario? Basterebbe una legge ordinaria, che può essere emanata dalla maggioranza che si è assunta il governo dello Stato.
Una rivoluzione, sarebbe invece la drastica soluzione di abolire il Pm: non mi riferisco alla funzione della pubblica accusa ma alla personificazione in un magistrato laddove la rappresentanza dello Stato può, dovrebbe, essere affidata ai vari corpi di polizia che ben possono svolgere, nel rispetto dei diritti, le necessarie indagini e sostenere le ragioni del Pubblico nel processo, magari avvalendosi dell’assistenza tecnica dell’Avvocatura dello Stato, come avviene nel processo civile, amministrativo e tributario.
Perché non anche in quello penale, laddove le garanzie potrebbero essere affidate direttamente al giudice, oggettivamente terzo? Si parla spesso di separazione delle carriere ma non si coglie l’essenza del problema: è la funzione giudicante la vera garanzia di indipendenza, disciplinando opportunamente – con l’esperienza storica che ci appartiene e di questi ultimi anni di disastri politico giudiziari – i provvedimenti cautelari imponendo la rapida definizione della fase giudiziaria che vede compromesse le libertà, come nel giudizio amministrativo, in cui l’accoglimento della sospensiva determina la definizione del processo con priorità, magari stabilendo termini ristretti di efficacia di ogni provvedimento provvisorio che incida sui diritti individuali, ed infine abolendo il doppio grado di giudizio ad istanza dello Stato, giacché non è concettualmente ammissibile il contrasto tra poteri.
Roberto De Tilla
avvocato