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Quando la vittima assolve il carnefice

Quale magistrato componente del dipartimento “Tutela Fasce Deboli” della Procura della Repubblica, sono intervenuto in un seminario organizzato dall’Università degli studi di Firenze dal titolo insolito: “Amori violenti”. Come se non bastasse, a rincarare l’interesse per il seminario contribuisce il sottotitolo assai evocativo: “Relazioni perverse e dipendenze psicologiche all’interno del rapporto di coppia”.

Nessun dubbio sulla vastità dell’area tematica tanto da coinvolgere, insieme ad operatori del diritto, la psichiatria forense, la psicologia, il settore assistenziale (Centri Antiviolenza, Servizi Sociali), la politica. Evocativo di cosa? Presto detto: dell’esperienza, spesso dalla tendenza imprevedibile che sfida le leggi della logica ma non i dettami della psicologia.

Il mio è un punto di vista privilegiato: svariate decine di querele e denunce settimanali per maltrattamenti in famiglia e atti persecutori, numerose segnalazioni dei servizi sociali, centri antiviolenza, diverse le trasmissioni di referti medici di primo soccorso. Ed altrettante indagini. Penetranti, talvolta invasive, con emissione di provvedimenti di inibizione o coercizione (sino alla custodia in carcere), come si conviene per la miglior tutela delle c.d. fasce deboli, ossia donne (in massima parte, benchè non manchino gli uomini) e minori. La Repubblica garantisce i diritti fondamentali anche all’interno dei consessi sociali, tra i quali la famiglia. In essa, la tutela dei minori e dei deboli è prioritaria: sicchè, la soglia dell’intervento dello Stato è arretrata, l’ordinamento interviene prima.

Prima di cosa? Dell’irreparabile. E non sempre è possibile, perché le ferite inferte all’interno di quel consesso familiare o para familiare, specie nei confronti dei figli, spettatori incolpevoli e spesso protagonisti passivi anch’essi, o di donne deboli e succubi, non guariranno facilmente o, semplicemente, non guariranno. Mai.

L’esperienza, si diceva, che sfugge alle leggi della logica: ordine di abbandono del domicilio domestico, divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalle vittime, custodia cautelare presso abitazioni e carcere. Questi, per lo più ed in via gradata, i provvedimenti adottati dopo indagini che rivelano il tessuto connettivo e culturale della famiglia, le loro frequentazioni, le abitudini, i cambiamenti, le criticità economiche, quelle caratteriali, le involuzioni, l’astio e l’incomprensione, l’odio e la recriminazione. In altri termini: la parabola del degrado psicologico, la curva del movimento franoso che ha travolto il rapporto.

A dispetto della profondità di quella voragine, l’intervento dello Stato e l’applicazione di misure cautelari a fronte di un delitto di maltrattamenti in famiglia genera sovente una presa di posizione della vittima anomala, piuttosto che l’autocritica dell’autore, del carnefice; sicchè, già all’indomani dell’esecuzione della misura, quando si è materializzata la presenza forte e minacciosa dello Stato con la tetra benchè inevitabile spettacolarità delle Forze di Polizia che eseguono le ordinanze cautelari, già all’interrogatorio di garanzia si presenta la vittima, moglie o compagna, talvolta con ancora indosso i segni delle botte ricevute e tracce ecchimotiche verdastre sotto gli occhi e, mano nella mano dell’indagato/imputato, sostiene di aver inventato quasi tutto, che non era proprio così come aveva detto, che sì talvolta sarà scappata una parola forte, uno schiaffo, un pugno ma che, in fondo, era stata anche lei a provocare ed ora è sicura che le cose andranno meglio, il marito/compagno ha compreso ed entrambi sono pronti a riprovarci. Analoga situazione all’udienza preliminare, quando bisogna decidere a distanza di mesi dall’ultimo episodio di violenza se rinviare a giudizio l’imputato.

Ciò, è ovvio, non accade sempre: nella gran parte dei casi la vittima è sollevata, si sente protetta e trova la forza per disgiungersi dal quel rapporto involuto nella patologia, nel quale la violenza è stata da uno elevata a metodo di gestione nei confronti dell’altro. Tuttavia, in casi minoritari benchè numerosi, ciò si riscontra e, non senza sgomento, si osserva una certa determinazione della vittima nel soccorrere chi le ha inferto sofferenze a fronte della tendenziale inerzia dell’imputato, silenzioso e tristemente prostrato all’ascolto della perorazione che la moglie esterna al giudice ed al pubblico ministero.

Sandro Cutrignelli
Sostituto Procuratore della Repubblica – Firenze

 

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