Se la fine della Prima Repubblica è stata caratterizzata dalle valigette di denaro che passavano nelle “onorevoli” mani di parlamentari per poi finire a finanziare illecitamente i partiti, la dipartita della Seconda al confronto sembrerà una puntata di Scherzi a parte. Perché se è immorale chiedere mazzette per dare sostegno finanziario a questo o quel movimento politico, è addirittura avvilente vedere “onorevoli” consiglieri regionali (curioso che tutti quelli che in qualche modo commettono questo tipo di illeciti sono sempre da riferirsi da questo appellativo…) prendere a piene mani soldi pubblici per spenderli in cose private e personali.
Chi pensava che lo scandalo Fiorito, alla Regione Lazio, fosse stato lo spartiacque tra un “prima” dove tutto veniva fatto nella più totale arroganza e un “dopo” dove la consapevolezza di essere al servizio della collettività avesse rialbergato nelle menti e nei cuori degli eletti nei vari Enti Regionali, si sbagliava. E di grosso.
La sentenza n.11/2015 della Corte dei Conti, sezione Basilicata, ha scoperchiato un mondo di piccole spese, di minuzie, di pinzillacchere avrebbe detto Totò, tanto piccole da sembrare persino offensive; spese costantemente caricate sui bilanci pubblici senza un minimo di vergogna da parte di 22 consiglieri regionali della Basilicata che negli anni passati, uno scontrino di qua e una fatturina di là, a spendere la significativa cifra di 323 mila euro, contestata dai giudici contabili.
Leggendo tra le righe della sentenza c’è da restare allibiti: si va dai prodotti tipici locali comprati in Brianza all’acquisto di 3 divani (utilizzati per uno studio privato), e poi profumi, farmaci, articoli da regalo, abbigliamento, cornici, tabacchi, piante e fiori, pile, libri, riparazioni tv, pelletteria, lavaggio auto, cambio pneumatici, spese telefoniche… persino gioielli.
Le cifre contestate ai singoli consiglieri sono differenti, e oscillano dai 3.000 ai 36.000 euro. In sede di controesame alcune pezze giustificative sono state portate dagli accusati, ma sono servite solo a ridurre l’entità del danno presunto alle casse pubbliche; resta il quadro di ordinario disordine contabile, di sprechi, di faciloneria, quando non addirittura di vero e proprio peculato, che caratterizzava la gestione dei soldi regionali.
La Corte dei Conti, comunque, ha sottolineato come in tema di distinzione tra “spese di rappresentanza istituzionale” e “spese di rappresentanza politica”, la comune provenienza pubblica dei fondi utilizzati e la loro doverosa destinazione ai fini specificamente individuati, impongono comunque una documentata rendicontazione che permetta di far emergere la connessione tra la spesa e le finalità istituzionali. Come dire: la Regione non è un bancomat a disposizione dei singoli consiglieri.
Sembrerebbe ovvio, e invece così non è; lo fa capire chiaramente un comma del regolamento della Regione Basilicata che la politica ha approvato il 1 gennaio 2013 nel quale esplicitamente si dice che “ogni consigliere può disporre mensilmente della somma di tremila euro per le spese che ritiene, nel suo insindacabile giudizio, più idonee all’espletamento del proprio mandato”; e per ammorbidire questo concetto che forse sembrava davvero un po’ troppo esplicito, è stata aggiunto tra parentesi “fatti i salvi comportamenti di rilevanza penale”, come se ci fosse bisogno di specificare per iscritto che non si può rubare.
La condanna alla fine è arrivata. L’ennesima, in questa storia contemporanea d’Italia che partorisce sempre nuovi capitoli. Sentenze che rappresentano gocce nel mare della corruzione e dell’uso improprio di fondi pubblici i quali, nel tempo, hanno pesantemente contribuito a mettere in ginocchio il Paese. Va ricordato che le cosiddette “spese di rappresentanza” sono state concepite “al fine di crescere il prestigio dell’Ente pubblico e darvi lustro nel contesto sociale in cui si colloca”, non per distruggerlo.
Ultima considerazione: tutto è partito da un esposto anonimo. Il che la dice lunga anche sull’omertà che ancora oggi impera nei corridoi dei palazzi istituzionali. Uno schiaffo alla trasparenza.